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ITINERARI - IDEE - L'IO E IL SUO DOPPIO

CARTESIO

Quando Newton proclamava di non «fingere ipotesi», ossia di non ricorrere, per spiegare la realtà, a principi o enti o forze misteriose, escogitate senza un'adeguata base sperimentale e perciò non verificabili, non parlava a caso. Si riferiva a Cartesio e più in generale a un indirizzo di pensiero con il quale si era più volte scontrato: quello che va sotto il nome di «razionalismo moderno» e che aveva i suoi massimi esponenti, oltre che in Cartesio, in Spinoza e in Leibniz.
Si dà il caso che questi tre studiosi, un francese, un olandese, un tedesco, così come i loro collaboratori e seguaci, fossero tutti Europei, nati e operanti sul continente. L'indirizzo empirico-sperimentale a cui Newton aderiva era invece tutto inglese: aveva avuto un antesignano in Francesco Bacone e, tra i contemporanei di Newton, poteva vantare un altro campione nell'inglese John Locke; inglesi sarebbero poi stati gli altri due grandi filosofi empiristi del Settecento, Berkeley e Hume. Il nazionalismo culturale faceva allora i suoi primi passi in Europa ed ebbe un certo peso nel condizionare la vita scientifica dell'epoca, caratterizzata da una larga circolazione delle idee e da forme nuove di incontro e di collaborazione tra gli studiosi (le accademie scientifiche, ad esempio), ma fortemente segnata anche da rivalità di scuola, da gelosie personali, da polemiche spesso pretestuose, specialmente in relazione alla priorità delle scoperte (come quella, celebre, che oppose Newton a Leibniz a proposito del calcolo infinitesimale).
Dal punto di vista dei metodi e dei risultati della scienza, però, l'opposizione Inghilterra-continente non aveva alcun serio fondamento. Il più autorevole esponente della nuova scienza Galilei, era italiano e moltissimi tra i massimi scienziati del tempo erano continentali, a cominciare, appunto, da Leibniz e da Cartesio (al quale, a parte fondamentali ricerche di fisica, specialmente nel campo dell'ottica, si deve l'elaborazione della geometria analitica, ossia del metodo per trattare algebricamente i problemi geometrici). L'empirismo inglese, d'altra parte, non era necessariamente più congeniale alla scienza sperimentale del razionalismo. Al contrario, in certi suoi risultati (come l'immaterialismo di Berkeley o lo scetticismo di Hume) poteva perfino trovarsi in difficile sintonia (se non in aperta contraddizione) con gli assunti della scienza. In fondo l'esperienza di cui si occupava l'empirismo inglese era quella di tutti i giorni, una sequenza di apparenze sensibili e di fantasmi dell'immaginazione. La scienza sperimentale, invece, si poneva esplicitamente come negazione dell'esperienza comune e partiva dal presupposto che fosse sempre possibile scoprire dietro le apparenze la realtà delle cose: l'esperimento come tecnica di discriminazione del vero dal falso era l'esatto contrario della testimonianza dei sensi invocata dagli empiristi.
C'è da aggiungere che, a dispetto delle polemiche e delle contrapposizioni, razionalisti ed empiristi condividevano generalmente, anche se le giustificavano in maniere diverse, concezioni e immagini che erano il succo della nuova scienza: la distinzione tra qualità primarie e secondarie delle cose, per esempio, a cui si collegava sia la visione meccanicistica dell'universo, sia l'approccio quantitativo ai fenomeni della natura. Ed un altro atteggiamento (così importante da dare alla filosofia moderna il suo connotato più caratteristico) univa razionalisti ed empiristi: ciascuno di loro cominciava a filosofare come se nessuno prima di loro avesse filosofato, e cioè senza appoggiarsi all'autorità di nessuno. Ciò non vuol dire, naturalmente, che i filosofi moderni ignorassero o pretendessero di ignorare il pensiero dei loro predecessori. Non vuol dire nemmeno che i filosofi moderni risuscissero davvero a liberarsi dei condizionamenti della tradizione. Vuol dire semplicemente (ma è appunto quello che conta) che ciascuno di loro prima di affermare alcunché, riteneva doveroso studiare la possibilità stessa dell'affermazione, cercava una legittimità, o una giustificazione del proprio filosofare, e non la cercava fuori di sé, nella tradizione o nelle cose, ma dentro di sé.
Il Discorso sul metodo di Cartesio è l'opera che ha espresso per prima (fu pubblicata nel 1637) e con più forza questo atteggiamento. Era una sorta di autobiografia ideale, in cui Cartesio ricostruiva l'itinerario intellettuale che lo aveva condotto a trovare in se stesso la sua prima certezza. Poiché non ci si può affidare né alle verità tradizionali (la filosofia di Aristotele era un buon esempio di un sistema di verità costruito con grandissimo rigore e confermato per secoli da una sorta di consenso universale, ma che alla fine aveva mostrato la debolezza dei suoi fondamenti ed era crollato miseramente) né, tanto meno, alla testimonianza immediata dell'esperienza, Cartesio aveva scelto il dubbio. La sua riflessione anziché cominciare con una affermazione, cominciava con un atto di sospensione del giudizio. Poteva sembrare un ritorno allo scetticismo antico. Ma c'era una differenza decisiva. Negli antichi scettici il dubbio era un punto di arrivo, una scelta definitiva e irreversibile: poiché non ci si può fidare né della testimonianza degli altri, né della testimonianza di noi stessi, non si deve credere a nulla. Per Cartesio, invece, il dubbio era solo un punto di partenza, un atteggiamento provvisorio. Dubitava di tutto: di ciò che vedeva e sentiva intorno a sé, di Dio e del mondo, di se stesso, delle sue idee, del Bene e del Male e dell'esistenza di una norma morale; ma, mentre si lasciava galleggiare in questa grande palude del dubbio, non rinunciava alla speranza di posare prima o poi il piede su un po' di terra ferma. In attesa di far chiaro in se stesso, per non compromettere nulla e per non correre rischi, aveva deciso di continuare a vivere come se tutte le credenze tradizionali (Dio, l'anima, il mondo) fossero vere, e come se tutte le pratiche tradizionali (l'osservanza della fede cattolica e l'obbedienza alle leggi dello Stato) fossero giuste. Ed ecco che, in preda al dubbio, Cartesio si era accorto di dubitare. Era stata la sua prima certezza: si può dubitare di tutto ma non di star dubitando. L'atto di pensiero, l'«io penso» (in latino cogito) è una certezza incontrovertibile, di evidenza assoluta: e se penso, aveva concluso Cartesio, allora esisto (cogito ergo sum).
Da questa prima deduzione Cartesio s'era ingegnato a dedurre ogni altra cosa, senza troppo soffermarsi ad accertare se il suolo su cui aveva finalmente messo piede fosse abbastanza saldo da sopportare l'immensa costruzione che aveva in mente:

... Considerai allora in generale che cosa è necessario perché una proposizione sia vera e certa; perché, visto che ne avevo trovata una che sapevo essere tale, pensai che dovevo anche sapere in che cosa consistesse questa certezza.
E avendo notato che nel penso dunque sono non c'è nient'altro che mi garantisca di dire la verità se non che vedo assai chiaramente che per pensare occorre essere, ritenni di poter prendere per regola generale che le cose che concepiamo chiarissimamente e distintissimamente son tutte vere; c'è solo qualche difficoltà a determinare bene quali sono quelle che concepiamo distintamente...

Naturalmente toccava a Dio esser dedotto per primo: l'idea di Dio, diceva Cartesio, ossia di un essere più perfetto di me perché pensa mentre io semplicemente dubito, è nel mio pensiero così evidente, così perfettamente chiara e distinta che non posso essermela inventata, deve essermi stata donata da Dio stesso. E poi l'anima: questa realtà spirituale che ho ritrovato proprio nel momento in cui ho deciso di non credere più a nulla, che non ho potuto sopprimere neppure col dubbio, c'è, esiste, è qualcosa di reale, è indistruttibile, è immortale; è la sostanza (o soggetto) che pensa (res cogitans). Infine il mondo: certo, potrebbe essere tutta un'illusione, un sogno, un'allucinazione; ma allora dovrei pensare che quel Dio di cui ho scoperto in me l'idea chiara e distinta sia un genio maligno, che si diverte a ingannarmi, il che è assurdo; ergo anche il mondo esiste.

EVIDENZA, SOGGETTO, OGGETTO

Il termine «evidenza» sta a indicare l'immediata e completa comprensibilità, intuibilità e perspicuità di qualche cosa: una affermazione, un'immagine, ecc. Talvolta (come avviene per l'inglese evidence) è usato nel senso di prova, testimonianza e simili (es.: questo argomento non costituisce alcuna evidenza per la tua affermazione). In filosofia quest'ultimo significato trova una certa corrispondenza nell'uso antico del termine (Epicurei e Stoici), secondo il quale l'evidenza è la presenza diretta dell'oggetto a colui che conosce: per gli Epicurei, ad esempio, l'evidenza è l'azione stessa che gli oggetti materiali esercitano sugli organi di senso. In antico, dunque, l'evidenza era collegata alla cosa che si conosce. Il significato moderno del termine, stabilito per la prima volta da Cartesio, insiste invece sui caratteri che la proposizione evidente ha per il soggetto, ossia l'immediata intuibilità, la perspicuità, la chiarezza, la distinzione.
È per questo che la filosofia cartesiana (come qualsiasi altra filosofia che ponga nel soggetto il criterio di verità) è stata definita soggettivismo. A proposito di soggettivismo, è bene ricordare che «soggetto» viene dal latino subiectum che è la traduzione letterale del greco hypokéimenon = «ciò che sta sotto» (nel senso di ciò che resta identico a sé pur nel variare dei suoi attributi o «accidenti»): «soggetto» è dunque affine a «sostanza». Da Cartesio in poi per «soggetto» si intende esclusivamente «il soggetto che pensa» e che Cartesio chiamava, appunto, sostanza pensante (res cogitans); tutto ciò che non pensa, e che invece può essere pensato, si dice invece «oggetto». La parola «oggetto», che viene dal latino obiectum = «scagliato contro», «opposto (a qualcosa)», è entrata nel linguaggio filosofico per opera degli Scolastici che l'hanno usata però in un senso completamente diverso dall'attuale; il suo significato etimologico, tuttavia, si adatta bene anche all'accezione moderna in quanto lo si può intendere come «ciò che sta di fronte» al soggetto, che gli si oppone.
L'evidenza nei razionalisti è l'unico criterio di verità: una proposizione è vera solo se si presenta alla coscienza con tale forza (chiarezza e distinzione, evidenza) che è assolutamente impossibile negarla o metterla in dubbio. La verità insomma si manifesta da sola, come la luce in rapporto alle tenebre: è illuminazione immediata. Il difetto di questa posizione è, per così dire, «evidente» a sua volta (ma qui la parola viene usata nel suo significato «debole», nel senso cioè di ciò che è facilmente comprensibile, conforme al buon senso): una proposizione totalmente falsa può sembrarci evidente a causa di un pregiudizio assunto inconsapevolmente, di una passione che ci acceca, o di un altro qualsiasi accidente dello stesso tipo, può sembrarci evidente anche e semplicemente per la nostra stupidità.

DUALISMO CARTESIANO E PANTEISMO SPINOZISTA

Stabilita l'esistenza dell'anima e quella del mondo esterno, Cartesio, come sappiamo, interpretava quest'ultimo alla maniera dei meccanicisti, ossia facendo ricorso esclusivamente ai principi della materia e del movimento; la materia, poi, era definita come pura estensione, nel senso che Cartesio considerava reali (ossia oggettive, proprie delle cose) solo le qualità numerabili, quantificabili e misurabili (forma, dimensioni, ecc.). La distinzione tra res cogitans e res extensa, riproponeva tutti i tradizionali dualismi (anima/corpo, spirito/materia, ecc.), ma con una forza insolita, dovuta alla totale, reciproca esclusione che derivava dalla definizione stessa delle due sostanze: tutto ciò che è esteso non pensa, tutto ciò che pensa non è esteso.
La tradizione attribuiva all'anima oltre alla facoltà di pensare, una serie di funzioni corporee: era il principio della vita e del movimento e come tale presiedeva all'attività dei diversi organi. D'altra parte l'anima stessa era considerata una specie di materia, per quanto sottile: aria, vento, soffio, alito, respiro, spirito. Cartesio, invece, mentre affermava nella maniera più rigorosa l'immaterialità dell'anima, recideva ogni rapporto tra anima e vita e, mentre riservava all'anima solo la funzione del pensiero, le toglieva il governo del corpo; nello stesso tempo, riconoscendo il movimento quale principio proprio della materia, faceva della vita nient'altro che una forma un po' speciale di movimento.
Era nato di qui un groviglio di problemi, connessi in primo luogo alla coesistenza delle due sostanze nell'uomo (non negli animali, che Cartesio considerava semplici macchine viventi) e poi, più in generale, al parallelismo che bisognava ipotizzare tra le modificazioni di una sostanza e quelle dell'altra: all'idea del Sole che tramonta (presente nella sostanza pensante) bisogna bene che corrisponda (nella sostanza estesa) un Sole che tramonta davvero, altrimenti dovremmo ammettere che ogni conoscenza è illusoria. Ma, posta la reciproca estraneità delle due sostanze, in che modo si può immaginare che un atto di volontà (che attiene alla sostanza pensante) possa determinare il movimento di un muscolo (che attiene alla sostanza estesa)? e in che modo dobbiamo figurarci che, per esempio, quei peculiari movimenti della sostanza estesa che conosciamo come «mal di pancia» possano indurre incubi e pensieri tetri nella sostanza pensante? e in che modo, infine, la sostanza pensante viene a conoscenza delle modificazioni che interessano la sostanza estesa (e cioè da che cosa è prodotta l'idea del Sole che tramonta se tra questa idea e il Sole che tramonta davvero non c'è alcun possibile rapporto diretto)?
Cartesio se la cavava ipotizzando che nell'uomo in qualche modo le due sostanze venissero a contatto (e suggeriva quale sede dell'incontro una piccola ghiandola del cervello, l'epifisi, detta anche ghiandola pineale per la sua caratteristica forma a pigna); per il resto si rimetteva alla bontà di Dio. In effetti, ammesso il dualismo cartesiano, l'unica possibile soluzione era di rimettere ogni cosa nelle mani di Dio, ipotizzando che sia le modificazioni della sostanza estesa (le cose) sia le modificazioni della sostanza pensante (le idee) fossero prodotte direttamente e immediatamente da lui. Abbandonare il dualismo cartesiano e optare per una soluzione di tipo monistico poteva invece significare almeno tre cose diverse: negare al pensiero il carattere di sostanza considerandolo una semplice modificazione della materia (materialismo); negare alla materia il carattere di sostanza dissolvendola in qualche modo nello spirito (spiritualismo); negare il carattere di sostanza tanto al pensiero quanto all'estensione considerando entrambi attributi di un'unica sostanza.
La prima soluzione fu sostenuta dall'inglese Thomas Hobbes (1588-1679), che scrisse anche delle «obiezioni» al sistema cartesiano; per Hobbes il pensiero e la coscienza erano semplici «vibrazioni» del sistema nervoso. Nel Settecento sarebbe stata ripresa dal francese (d'origine tedesca) Paul-Henri Dietrich barone d'Holbach (1723-1789) nel suo Sistema della Natura, da Denis Diderot (1713-1784) e da Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert (1717-1783) direttori della più prestigiosa iniziativa culturale dell'Illuminismo, l'Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, pubblicata a Parigi in 28 volumi tra il 1751 e il 1772), da Julien Offroy de La Mettrie, che già conosciamo, e da diversi altri.
La seconda soluzione fu proposta da Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), secondo il quale, i componenti ultimi della materia sarebbero rappresentati da una sorta di atomi incorporei, puntiformi (ossia inestesi), pure forze o centri di energia, direttamente creati da Dio e indistruttibili, che con termine greco chiamava monadi, ossia «unità». Capaci di percezione, le monadi leibniziane erano una specie di anime e pur non avendo, per dirla con una frase divenuta famosa nei manuali di filosofia, «né porte né finestre», ossia pur essendo enti assolutamente completi e autosufficienti, senza aperture verso l'esterno, in virtù di una misteriosa armonia prestabilita garantita da Dio, riflettevano in sé, ciascuna a suo modo e con diversi gradi di chiarezza e distinzione, l'intero universo. Le tesi di Leibniz erano assai meno lontane di quel che potrebbe apparire da quelle dei materialisti indicati sopra, in quanto molti di costoro (d'Holbach e La Mettrie, per esempio) attribuivano qualità quasi-mentali (sensibilità, simpatie e antipatie, ecc.) alla materia. D'altra parte è utile ricordare che le monadi leibniziane hanno offerto il modello agli atomi di forza di cui parlava Ruggero Boscovich, straordinaria anticipazione delle moderne concezioni sui componenti ultimi della materia.
Gottfried Wilhelm Leibniz

La terza soluzione è quella adottata da Baruch Spinoza (1632-1677) per il quale pensiero ed estensione erano attributi di Dio, ossia, come precisava, della Natura (in latino: Deus sive Natura). Questa identità di Dio e Natura è ciò che tradizionalmente si indica come panteismo spinoziano. «Panteismo» è un termine che abbiamo già incontrato parlando del neoplatonismo dei primi secoli dell'era cristiana e del naturalismo rinascimentale. Ma ci sono almeno due tipi di panteismo: quello che identifica i due termini nel senso che dissolve la Natura in Dio (acosmismo, composto di a- privativo e di cosmo: teoria che nega l'esistenza del mondo) e quello che fa l'inverso, ossia assorbe l'idea di Dio in quella di Natura (ateismo, composto di a- privativo e del greco theòs = «Dio»: teoria che nega l'esistenza di Dio). Il neoplatonismo antico era una corrente panteistica del primo tipo; lo spinozismo è un panteismo del secondo tipo, che giunge a un rifiuto radicale delle nozioni di persona divina, creazione, trascendenza, provvidenza e simili, su cui si basano tutte le religioni nate dall'antico ceppo dell'Ebraismo.
Immaginare che Dio (ossia la Natura) sia dotato di intelletto e di volontà, così come immaginare che nella Natura (ossia in Dio) sia presente una qualche finalità era per Spinoza una forma grossolana di antropomorfismo: l'unica causa che agisce nella realtà è la causa efficiente, come era tra l'altro confermato, secondo Spinoza, dai risultati della scienza sperimentale, che offrivano una visione rigorosamente meccanicistica del mondo. Dio, per Spinoza, non è che questo stesso mondo, con le sue ferree leggi, che non ammettono né il caso né l'arbitrio, e in forza delle quali ogni evento e ogni esistenza particolare risultano rigorosamente determinati. La necessità che governa il mondo è, secondo Spinoza, la stessa che regola le dimostrazioni matematiche: un uomo è sano e un altro è malato, uno è biondo e l'altro è bruno per lo stesso tipo di necessità per il quale la somma degli angoli di un triangolo è pari a 180 gradi. Il libero arbitrio non è che un'illusione: se la volontà dell'uomo ci appare libera, è solo perché l'intelletto non arriva mai a conoscere fino in fondo le motivazioni vere delle azioni, delle passioni, delle inclinazioni, dei desideri dell'uomo. A questa libertà illusoria si oppone la vera libertà, che è propria del filosofo, e che si identifica con la coscienza e la serena accettazione della necessità che lega fra di loro tutte le cose.

BARUCH SPINOZA

Baruch Spinoza (1632-1677) era nato in una famiglia ebraica di origine portoghese emigrata in Olanda, la patria della tolleranza, per motivi religiosi. Educato nell'Ebraismo, ma in contatto con ambienti di diversa ispirazione religiosa ed anche con atei e miscredenti, manifestò presto fastidio per ogni tipo di conformismo, non escluso quello della comunità a cui apparteneva e dalla quale, nel 1656, fu pubblicamente condannato per eterodossia e messo al bando. Gli fu fatto il vuoto intorno e anche i parenti lo abbandonarono, escludendolo dagli affari e dalle attività della famiglia. Per guadagnarsi la vita Spinoza scelse un'occupazione manuale che gli fruttava un reddito modestissimo, ma che gli assicurava tutta la libertà di cui aveva bisogno: si mise a lavorare lenti per microscopi e cannocchiali (la cui costruzione era un'attività tradizionale in Olanda). Nel 1670 pubblicò anonimo il Tractatus theologico-politicus, dove sosteneva tra l'altro che in una società civile ciascuno dovrebbe avere il diritto di pensare come gli pare, e che fu subito condannato da tutti, ebrei, cattolici e protestanti. Per non essere indotto a compromessi con la propria coscienza e per conservare intatta la propria libertà di pensiero rinunciò alla cattedra di filosofia nell'università di Heidelberg che gli era stata offerta dall'Elettore del Palatinato e che gli avrebbe assicurato finalmente l'agiatezza. La sua opera principale, L'Ethica geometrico more demonstrata (Etica dimostrata in modo geometrico, ossia alla maniera di Euclide negli Elementi) fu pubblicata postuma, come quasi tutte le sue opere.
Baruch Spinoza


LOCKE

Tra il 1652 e il 1658 (quando ottenne il titolo di Master of Arts un grado accademico equivalente alla laurea in materie umanistiche) John Locke (1632-1704) studiò all'università di Oxford, dove qualche anno più tardi sarebbe tornato in qualità di docente. In quegli anni (che erano gli anni della dittatura di Cromwell, caratterizzati da una straordinaria vivacità intellettuale e da un largo interesse per la ricerca sperimentale) erano presenti ad Oxford alcuni importanti esponenti della nuova scienza, tra i quali l'irlandese Robert Boyle (1627-1691), l'autore di The sceptical Chymist (Il Chimico scettico, 1661). Boyle, che era uno dei fondatori dell'Invisibile College, il cenacolo da cui sarebbe nata nel 1662 la Royal Society («Società reale per il progresso delle conoscenze naturali», ossia l'Accademia delle Scienze inglese) si era stabilito nel 1654 a Oxford e vi aveva aperto un laboratorio, dove impiegò come suo assistente Robert Hooke (1635-1702) destinato anche lui a grande notorietà scientifica. L'obiettivo di Boyle era di ricondurre anche i fenomeni chimici ai principi del meccanicismo e del corpuscolarismo. Sebbene non si possa dire che abbia realizzato per intero il suo programma, quello che è riuscito a fare in questo campo giustifica ampiamente l'appellativo che gli è stato dato di fondatore della chimica moderna. Meccanicismo e corpuscolarismo costituivano anche per Locke i riferimenti teorici fondamentali. Da Boyle e dalla tradizione del meccanicismo Locke ha preso la distinzione delle qualità in primarie e secondarie, mentre il corpuscolarismo boyleiano ha un esatto corrispondente in quello che è stato chiamato l'atomismo mentale di Locke, ossia la riduzione da lui operata dei contenuti mentali a unità elementari (le idee semplici) capaci di associarsi in strutture complesse tramite processi meccanici di aggregazione. Sempre negli anni di Oxford Locke intraprese studi di medicina con Thomas Sydenham (1624-1689), detto «l'Ippocrate inglese», una delle massime autorità nel campo della descrizione e della classificazione delle malattie. Senza mai conseguire un titolo accademico, Locke acquisì una buona competenza in materia, che gli permise anche di esercitare per un certo periodo la professione di medico.

La filosofia moderna, da Cartesio a Kant, è stata anche (e forse soprattutto) una lunga riflessione sulle basi, sulle possibilità e sui limiti della nostra conoscenza. Studiando le fondamenta del sapere alcuni si sono imbattuti in solide certezze, a cui hanno ritenuto di poter ancorare un rigido sistema di pensiero, altri in incertezze irriducibili, che hanno imposto modi di argomentare più prudenti e conclusioni meramente probabili. Molto alla grossa, i primi, quelli delle certezze, erano razionalisti; i secondi, quelli delle incertezze, erano empiristi. Nel razionalismo c'era una buona dose di dogmatismo; nell'empirismo c'era invece una buona dose di scetticismo non disgiunto, come vedremo, da un certo gusto del paradosso. Mentre i razionalisti cercavano in una verità ultima e incontrovertibile la soluzione dei grandi problemi della metafisica, gli empiristi preferivano indagare in che modo funzionasse il nostro pensiero, nella convinzione che, chiarito questo punto, molti di quei grandi problemi sarebbero apparsi inconsistenti o comunque si sarebbero drasticamente ridimensionati.
Era quello che pensava, tra gli altri, proprio John Locke. Il suo Saggio sull'intelletto umano, pubblicato nel 1690, era nato in forma di garbata e piacevole conversazione con amici intelligenti e curiosi, come quelli che Locke si era fatto negli anni giovanili ad Oxford, fisici, medici, chimici, avvezzi a studiare con gli strumenti del metodo sperimentale problemi esattamente delimitati, e poco propensi invece a lasciarsi travolgere dalle grandi e indefinite questioni della metafisica. Lo dice lo stesso Locke nell'introduzione al Saggio:

... Dopo esserci tormentati senza avvicinarci ad una soluzione dei dubbi che ci lasciavano perplessi, mi balenò l'idea che stavamo seguendo una strada sbagliata. E che prima di cimentarci in ricerche di quel genere era necessario esaminare le nostre stesse capacità per vedere di quali oggetti le nostre menti potessero occuparsi e di quali no. Resi noto questo pensiero alle persone riunite, le quali si accordarono nel senso che proprio questa dovesse essere la nostra prima ricerca...

Determinare la portata della nostra conoscenza, secondo Locke, significava non disperdere le forze in campi che ci sono preclusi, ed era un modo, anche, per evitare lo scetticismo che è inevitabile conseguenza del vagare senza costrutto nel «vasto oceano dell'Essere». Noi ci troviamo, diceva ancora Locke, nella condizione di un marinaio che adopera lo scandaglio per sondare i fondali: lo scandaglio non può certo servirgli a misurare la profondità del mare, ma conoscere la lunghezza della fune gli permette, se non altro, di non finire in secca.
Il problema fondamentale del Saggio di Locke era quello dell'origine delle nostre idee. L'intero primo libro era dedicato a discutere la dottrina secondo la quale il fatto che esistano idee (nozioni e norme morali) su cui tutti concordano, dimostrerebbe il loro carattere innato; quelle idee, cioè, sarebbero presenti nell'intelletto di ogni uomo fin dalla nascita precedendo qualsiasi esperienza. Questa tesi, di derivazione platonica, ricorreva in modi diversi nel pensiero dei razionalisti, e in Inghilterra era stata ripresa (ma in un contesto più religioso che filosofico) da un gruppo di pensatori noto come «scuola di Cambridge». Appunto contro le argomentazioni della scuola di Cambridge era diretta la polemica di Locke: il consenso universale, ammesso che esista, può essere spiegato in molti modi e non richiede affatto l'ipotesi dell'innatismo; ma soprattutto, l'esistenza di un consenso del genere è tutt'altro che provata. Era possibile semmai, secondo Locke, dimostrare il contrario: i principi di identità e di non contraddizione, ad esempio, che sembrano presentare in più alto grado l'attributo dell'universalità, non hanno alcun significato per i bambini e per gli idioti. Anche meno attendibile appariva l'esistenza di norme universali di comportamento: molte persone mostrano di ignorare le più elementari regole morali e moltissime sono quelle che vi si piegano solo con difficoltà. In verità, diceva Locke, le norme morali «sono ben lontane dall'imporsi da sé all'intelligenza delle persone, ove queste non si diano la pena di ricercarle». Se infine (concludeva) si osservano le abitudini dei selvaggi o comunque di popoli diversi dagli Europei, è facile accorgersi (come innumerevoli relazioni di viaggiatori stavano ormai a dimostrare) che molti loro comportamenti sono del tutto in contrasto con i principi morali che si pretendono validi per tutta l'umanità.
Le idee innate erano dunque, per Locke, un'escogitazione priva di fondamento. L'intelletto umano alla nascita è una tabula rasa, ossia un gran foglio bianco dove tutto è ancora da scrivere. È l'esperienza, ossia il contatto con le cose e con gli altri uomini, che gradualmente riempie questo foglio. Le idee non sono che i segni, o impressioni, lasciati sul foglio dagli oggetti che percepiamo mediante l'esperienza esterna o «sensazione», oppure dai pensieri, dai sentimenti, dai moti dell'animo che percepiamo attraverso l'esperienza interna o «riflessione». Sensazione e riflessione sono le uniche fonti delle nostre conoscenze.
Locke distingueva però idee semplici e idee complesse. Quelle che giungono al nostro intelletto attraverso la sensazione e la riflessione sono le idee semplici, che consistono in «una sola immagine o concezione totalmente uniforme», non suscettibile, cioè, di essere scomposta in altre idee. Nei confronti delle idee semplici l'intelletto è del tutto passivo, in quanto non può né formarne di nuove né distruggere quelle che già possiede; esse si presentano alla mente con i caratteri dell'immediatezza e dell'evidenza, ossia come idee chiare e distinte. Le idee complesse sono invece il risultato dell'azione dell'intelletto sulle idee semplici, che vengono ripetute, confrontate e unite assieme in una varietà quasi infinita di combinazioni. Una tinta rosata, un'impressione di rotondità, una sensazione di levigatezza, un certo peso, un profumo particolare sono idee semplici, se le associamo insieme otteniamo un'idea complessa: l'idea di mela. Otteniamo, anzi, l'idea di una particolare mela, quella mela, per esempio, che sta sul tavolo, sotto i nostri occhi, a portata delle nostre mani. Ma per accorgerci che la mela sta lì, davanti ai nostri occhi, il nostro intelletto deve compiere altre operazioni: deve associare l'idea (complessa) della mela con quella del tavolo su cui è posata (un'altra idea complessa) e delle nostre mani che stanno per afferrarla e portarla alla bocca perché sentiamo il desiderio di mangiarla, ecc. Tutti questi rapporti di posizione o di causa che legano la mela al tavolo, alle mani, alla bocca, al nostro appetito costituiscono altrettante idee complesse.
Infine la nostra intelligenza può fare qualcosa di più che associare idee semplici e complesse: può astrarre l'idea di questa mela che sto per mangiare da tutte le idee che le sono connesse ora e qui (quella sua particolare tonalità di colore, quella certa intensità di profumo, quel suo peso preciso, ecc.; e poi questo tavolo, le mani, la bocca, l'appetito, ecc.) e concepire l'idea di mela in generale. Le idee generali, diceva Locke, sono quelle che emergono mediante la loro separazione dalle circostanze di tempo e di luogo, e «da qualunque altra idea che possa determinarle nel senso di questa o quella esistenza particolare».
Al processo di astrazione è legata la comunicazione, ossia il linguaggio. Le parole sono nomi che diamo alle cose. L'esperienza ci dà soltanto cose particolari e non è possibile trovare un nome per tutte le infinite cose particolari di cui possiamo fare esperienza. Anche se fosse possibile non servirebbe a niente. Perché ci sia comunicazione, infatti, bisogna che le parole corrispondano non solo alle idee che sono nella mente di chi comunica, ma anche alle idee che sono nella mente di chi riceve la comunicazione. Le idee generali non corrispondono a niente di realmente esistente (l'idea di mela in generale ad esempio, non corrisponde a nessuna delle mele particolari di cui ho fatto concretamente esperienza), ma consentono di collezionare sotto una stessa etichetta un grande numero di idee particolari (non solo le idee di tutte le mele di cui io ho fatto esperienza, ma anche le idee di tutte le mele di cui ha fatto esperienza il mio interlocutore) e in questo modo esse rendono possibile la comunicazione.
Abbiamo detto che le idee semplici provenienti dalla sensazione sono i segni lasciati dagli oggetti esterni sul foglio originariamente bianco della nostra anima. Ma che le nostre idee siano «delle veraci immagini o somiglianze di qualcosa di inerente all'oggetto che le produce» è un'illusione. Le idee sono prodotte dalle qualità delle cose, ma Locke distingue tra qualità primarie e qualità secondarie. Solo le prime ineriscono effettivamente alle cose (e sono le stesse già indicate come tali da tutti i teorici del meccanicismo, da Galilei a Cartesio, a Boyle: la solidità, l'estensione, la figura, il numero, il movimento); le altre (colori, suoni, sapori, ecc.) non sono davvero presenti negli oggetti ma nascono da particolari combinazioni delle diverse qualità primarie.
Un'idea complessa un po' particolare (almeno per l'importanza che ha avuto nella storia del pensiero e per l'attenzione che le ha dedicato Locke) è quella di sostanza. Nella nostra esperienza, dice Locke, accade spesso che molte idee semplici vadano costantemente assieme. L'abitudine a trovarle sempre collegate tra loro fa presumere che appartengano ad una stessa cosa, la quale, per tale motivo, viene designata con un nome solo e indicata erroneamente come un'idea semplice. Il fatto è che non sappiamo immaginare in qual modo queste idee semplici possano sussistere da sole, e così ci abituiamo a supporre l'esistenza di un qualche substrato che le sorregga e che chiamiamo sostanza. Ciò non vuol dire necessariamente che le sostanze non esistono. Ma poiché l'esperienza non ci dà alcuna idea chiara e distinta di quel che sia «sostanza», questo presunto substrato delle qualità delle cose non può essere conosciuto dall'intelletto: può soltanto essere immaginato.
L'ultimo libro del Saggio è dedicato al tentativo di determinare conclusivamente quel valore della conoscenza che era stato l'interrogativo iniziale di Locke. La conoscenza ha, secondo Locke, due gradi. Il primo, che è il più chiaro e più certo è rappresentato dalla percezione immediata, ossia dall'intuizione. Il grado successivo è quello della dimostrazione; non è una conoscenza chiara e luminosa come l'intuizione, ma la validità del processo con cui si arriva a dimostrare qualcosa si basa pur sempre sul carattere intuitivo, evidente, dei singoli passaggi. Ciò significa che la conoscenza ha sempre ed esclusivamente a che fare con idee (e in ultima analisi con idee semplici), e mai direttamente con le cose. Ma se la conoscenza è esclusivamente conoscenza di idee, quali garanzie abbiamo che queste idee corrispondano alla effettiva realtà delle cose? In altre parole: se quando conosciamo non usciamo mai dalla nostra mente, come possiamo inferire l'esistenza di cose al di fuori di noi?
Locke (con un evidente calo di originalità) ipotizza a questo proposito una triplice via: alla conoscenza della nostra propria esistenza si arriva per via di intuizione (Locke si avvale qui dell'argomento cartesiano del cogito); a quella di Dio si arriva per via di dimostrazione (Locke ripiglia qui il solito argomento di Dio come causa prima); a quella delle cose per via della sensazione, nel senso che, quando riceviamo le idee semplici ci sentiamo passivi: percepiamo cioè che esse non sono prodotte dalla nostra mente ma dalle cose stesse, che operano su di essa dal di fuori.
Un'immagine di John Locke


DEISMO, TEISMO, ATEISMO, LIBERO PENSIERO

La scuola di Cambridge era un piccolo gruppo di pensatori che riprendeva alcuni temi del platonismo, come l'innatismo delle idee volgendoli a un significato prevalentemente etico-religioso. A Cambridge insegnava anche Newton, che non mancò di utilizzare alcuni suggerimenti della scuola nelle sue elucubrazioni teologiche, per esempio nella sua concezione dello spazio come una sorta di «sensorio divino», ossia come l'organo di senso attraverso il quale Dio imprimerebbe il movimento all'universo. Contro le divisioni e gli odi che ormai da un secolo insanguinavano la Cristianità, il gruppo di Cambridge richiamava i seguaci di tutte le confessioni cristiane ad apprezzare quel che li univa anziché quel che li poteva dividere.
Le interminabili controversie teologiche, sostenevano, causa di tanti inutili massacri, riguardavano questioni secondarie, quando non addirittura frottole e fanfaluche senza importanza. La dottrina essenziale del Cristianesimo si poteva riassumere in pochi punti: esiste un Dio creatore e signore del mondo, che gli uomini hanno il dovere di riconoscere e di venerare; il miglior modo di onorare e servire Dio è di fare il bene e di evitare il male; chi fa il bene è premiato nell'al di là, chi fa il male è punito. Tutto qui.
Secondo i platonici della scuola di Cambridge, principi così generali e così «ragionevoli» erano principi «cattolici» nel vero e pieno senso della parola (che in greco vuol dire «universale», «comune a tutti») in quanto erano accettati da tutti, e non solo dentro, ma perfino fuori del Cristianesimo. La «cattolicità» di questo consenso era la prova, secondo loro, che quei principi erano innati, scritti nella nostra anima direttamente da Dio. Locke dedicò il primo libro del suo Saggio a confutare l'innatismo dei platonici di Cambridge, ma il tentativo di rendere ragionevole e umano il Cristianesimo lo trovava largamente d'accordo, come risulta, tra l'altro, dalla Epistola sulla tolleranza del 1689 e dalla Ragionevolezza del Cristianesimo del 1695. La fede, diceva in sostanza nella Ragionevolezza del Cristianesimo, ha contenuti che vanno al di là della ragione, ma che devono comunque essere ragionevoli per poter essere compresi.
La fede, aveva detto nel Saggio sull'intelletto umano è «l'assenso dato ad una proposizione, non ottenuta mediante le deduzioni della ragione, ma sul credito di chi la propone come proveniente da Dio»: non può dunque avere «alcuna autorità contro i dettami chiari ed espliciti della ragione». Locke chiamava «entusiasmo» (dal greco éntheos = «ispirato da Dio») l'atteggiamento fanatico di chi, prendendo i fantasmi della propria immaginazione per ispirazioni divine, pretende di far valere le proprie opinioni non con la ragione, ma con la coercizione.
La tendenza a ricondurre la fede cristiana entro i confini della ragione, che si può far risalire appunto agli appelli alla pacificazione della scuola di Cambridge e alla polemica di Locke contro l'entusiasmo, si chiama deismo (dal latino deus). I deisti negavano con maggiore o minore decisione il carattere personale di Dio, la rivelazione, i misteri della fede, e combattevano la credenza nei miracoli, i culti superstiziosi, e qualsiasi forma di fanatismo e intolleranza. Come già aveva fatto la scuola di Cambridge, il deismo tendeva a identificare il nucleo sano della religione con quelle poche credenze che, essendo conformi alla ragione, incontrano il consenso di tutti e che costituiscono una sorta di «religione naturale» contrapposta alle religioni storiche o «positive» caratterizzate da antiche e tenaci incrostazioni superstiziose.
John Toland (1670-1722) e Anthony Collins (1676-1729) sono i maggiori rappresentanti del deismo. Il primo in Cristianesimo non misterioso (1696) rifiutava qualsiasi asserzione della tradizione o della Scrittura che non trovasse conferma nella ragione; il secondo, un allievo di Locke, nel Discorso sul libero pensiero (1713) sosteneva la necessità di sottoporre la religione all'esame spregiudicato della ragione. L'espressione «liberi pensatori» o «libertini», già in uso da tempo ma con significati sensibilmente diversi, ha preso a indicare da allora quanti respingono le verità rivelate e l'autorità della Chiesa (di qualsiasi Chiesa).
Con il termine teismo (dal greco theòs) si indica l'atteggiamento di intransigente difesa della fede storica, ossia delle dottrine tradizionalmente professate dalle diverse Chiese cristiane (a cominciare dall'idea di rivelazione e dall'immagine di un Dio-persona).
Il teismo è dunque il diretto avversario del deismo (e le due parole non vanno assolutamente confuse). I teisti hanno spesso accusato di ateismo i deisti. Anche se i deisti ammettono l'esistenza di un qualche Dio o Ente supremo, mentre gli atei la negano assolutamente, l'accusa ha qualche fondamento, giacché entrambi svuotano le religioni tradizionali di qualsiasi significato.

QUALCHE TERMINE

TABULA RASA

L'espressione latina «tabula rasa» si riferisce alla tavoletta ricoperta di cera su cui i Romani usavano scrivere incidendovi lettere e numeri con uno stilo. Per utilizzarla una seconda volta i segni già incisi dovevano essere cancellati spianando nuovamente la cera e rendendola liscia (rasa). Nel linguaggio corrente «fare tabula rasa» significa far piazza pulita di qualcosa, portare via tutto, cancellare ogni traccia. Nel linguaggio. filosofico l'espressione è stata usata (ad esempio da Aristotele e da Locke) per indicare la condizione della mente prima che qualsiasi conoscenza vi sia impressa e da Locke in poi sintetizza la negazione empiristica dell'innatismo: solo l'esperienza può incidere dei segni (conoscenze) su quella tavola perfettamente liscia che è la mente umana.

FANATISMO, ENTUSIASMO, LIBERTINISMO

«Fanatico» e «fanatismo» (come del resto «profano») derivano dal latino fanum = «tempio», il quale a sua volta è legato a fas = «diritto sacro», «legge divina» da cui vengono «fasti», «fastigio», «festa», ecc. «Entusiasta» e «entusiasmo» derivano invece dal greco enthusiàzo = «sono ispirato», composto di en = «dentro» e theòs = «Dio»: «che ha Dio dentro di sé».
«Libertino» viene dal francese libertin che a sua volta deriva dal latino libertinus = «figlio di liberto» (il liberto è lo schiavo affrancato). L'espressione compare in un passo degli Atti degli Apostoli (VI, 9) dove si parla di una setta ebraica di questo nome e, male interpretandone il significato, è stata usata per indicare quei movimenti ereticali del basso Medio Evo, i cui membri, sentendosi in comunione con lo Spirito Santo e perciò liberi dal peccato, si ritenevano esonerati dall'osservanza delle regole morali e in particolare da quelle concernenti l'attività sessuale.
Tra Cinque e Seicento si è sviluppato negli ambienti intellettuali (specialmente in quello degli storici, dei filologi e degli eruditi) un movimento a sfondo razionalistico e irreligioso, detto Libertinismo, che non va confuso però con le vecchie sette libertine, anche perché il disprezzo che i libertini moderni professavano per ogni forma di superstizione e di fanatismo non risparmiava certo le correnti ereticali del Medio Evo.
Caratteristiche dei libertini erano l'incredulità verso le favole della religione (che si divertivano a smontare con gli strumenti della critica, che sapevano adoperare assai bene) e l'insofferenza verso ogni imposizione in fatto di coscienza.
Questi sentimenti si esprimevano (quando era possibile esprimerli) in atteggiamenti di irrisione e di dissacrazione, che talvolta, per polemica, andavano perfino oltre le loro vere convinzioni; per questo i libertini (che erano detti anche «spiriti forti»), pur essendo per lo più deisti o panteisti, erano spesso confusi con gli atei. È inutile dire che alcuni di loro (come l'italiano Giulio Cesare Vanini, filosofo panteista, strangolato e arso sul rogo a Tolosa nel 1619 per ordine dell'Inquisizione) finirono molto male, andando a ingrossare la schiera delle vittime dell'intolleranza religiosa.

BERKELEY

L'interesse che animava la ricerca filosofica di George Berkeley (1685-1753), un anglicano irlandese che nel 1734 sarebbe diventato vescovo di Cloyne, era di carattere prevalentemente religioso. Berkeley non era affatto portato alle dispute teologiche (che riteneva inutili, noiose e forse pericolose per una sana vita religiosa), ma era fortemente irritato dalle filosofie alla moda e dalle tendenze libertine, che minacciavano di gettare discredito sul Cristianesimo e in genere sulle religioni positive, alle quali attribuiva il grande merito di indurre gli uomini a comportamenti regolati, civili, morali. Gli avversari da battere erano Hobbes, Spinoza, Toland, Collins, e cioè il materialismo, il meccanicismo, il libero pensiero e, alla fin fine, anche la scienza newtoniana. L'opera più famosa di Berkeley, pubblicata nel 1710, faceva trapelare questa preoccupazione già nel titolo: Trattato sui principi della conoscenza umana in cui si investigano le principali cause di errore e di difficoltà nelle scienze, insieme ai fondamenti dello scetticismo, dell'ateismo e dell'irreligione.
Il giovane Berkeley (nel 1710 aveva 25 anni) era portato alle posizioni radicali e non esitò ad attaccare la nozione stessa di materia (la sua filosofia è detta per questo immaterialismo). Nelle sue intenzioni la confutazione del materialismo avrebbe dovuto poggiare su basi rigorosamente empiriche. Se ci atteniamo esclusivamente all'esperienza, sosteneva seguendo Locke, non possiamo non renderci conto che abbiamo sempre a che fare con delle idee, mai con delle cose. Abbiamo cioè a che fare con le nostre percezioni delle cose, oppure con le nozioni delle cose che la nostra fantasia o la nostra memoria si costruiscono sulla base delle percezioni: ma non ci imbattiamo mai in oggetti esterni a noi. Che si potesse immaginare che al di là delle sensazioni ci fosse qualcosa (una sostanza materiale) gli pareva una stranezza.

... È un'opinione stranamente prevalente tra gli uomini che case, montagne, fiumi e, in una parola, tutti gli oggetti sensibili abbiano un'esistenza naturale o reale indipendente dal fatto di essere percepiti da un intelletto. Ma [...] che cosa sono quelle cose se non ciò che percepiamo con i nostri sensi? E che cosa possiamo percepire se non le nostre idee o sensazioni?...

L'esistenza delle «cose» consiste dunque nell'essere percepite (esse est percipi) e proprio nel senso che esse non sono affatto cose (oggetti materiali), ma idee (sensazioni, percezioni, immaginazioni). La realtà, però, si affrettava a dire Berkeley, non è fatta solo di idee. C'è qualcosa che non è riducibile a una pura sequenza di sensazioni o di immagini, esiste di per sé, (è cioè sostanza), e se non ci fosse neppure le idee potrebbero essere: lo spirito.

Oltre a tutta questa infinita varietà di idee e oggetti di conoscenza c'è anche qualcosa che li conosce o percepisce [...]. Questo essere percipiente e attivo è quel che io chiamo mente, spirito, anima o me stesso. Con le quali parole non designo alcuna delle mie idee, ma una cosa interamente distinta da esse, in cui esse esistono, o, che è lo stesso, per mezzo di cui sono percepite.

Evidentemente l'esistenza dello spirito non poteva essere affermata sulla base dell'esperienza: l'empirismo radicale, che Berkeley aveva adottato per negare l'esistenza della materia, lasciava qui il posto a una deduzione molto simile (ancora una volta) al cogito cartesiano. È il passaggio dall'affermazione del «me stesso» come sostanza spirituale finita a quella di Dio come sostanza spirituale infinita sembrava a Berkeley non presentare alcuna difficoltà; lo dava, anzi, per scontato.

Ci sono alcune verità così vicine e ovvie alla mente che un uomo deve soltanto aprire gli occhi per vederle. Di questo genere ritengo questa fondamentale verità: che tutta la volta del cielo e tutto l'arredo della Terra, in poche parole tutti i corpi che compongono il grande sistema del mondo non hanno alcuna sussistenza fuori di una mente; che il loro essere consiste nell'esser percepiti o conosciuti; che di conseguenza, finché non sono attualmente percepiti da me, ossia non esistono nella mia mente o in quella di qualche altro spirito creato [finito], debbono o non esistere affatto oppure sussistere nella mente di uno Spirito Eterno.

Se le cose esistono solo quando e in quanto le percepiamo, diceva in sostanza Berkeley, il tavolo su cui scrivo cesserà di esistere appena sarò uscito dalla stanza e tornerà improvvisamente a esistere quando vi rientrerò. Questo continuo «saltare» degli oggetti dall'esistenza al nulla e dal nulla all'esistenza contrasta con il più elementare buon senso. Per fortuna c'è Dio, che, per così dire, «non esce mai dalla stanza» in quanto ogni cosa gli è (per definizione) continuamente presente. Così, ogni cosa può mantenersi nell'essere anche quando non è percepita da nessuno spirito finito perché in ogni caso è percepita da Dio.
Intorno ai vent'anni, quando ancora studiava in collegio, Berkeley era stato come folgorato da un'intuizione, che gli era parsa insieme nuovissima e di un'evidenza palmare: «La causa di tutte le cose naturali - aveva scritto in un suo libro di appunti è soltanto Dio», e intendeva che è Dio stesso che suscita di volta in volta e immediatamente in ciascuno di noi la percezione dei fenomeni naturali. Era dunque del tutto inutile, per Berkeley, affaticarsi a indagare i meccanismi della natura: la natura, dopo tutto, non era che una sorta di grandioso spettacolo offerto da Dio all'umanità. L'importante era goderselo.
Il guaio della concezione di Berkeley è che la si poteva tranquillamente rovesciare: se è vero che, posta l'esistenza di Dio, non è più necessario immaginare qualcosa di materiale a fondamento delle nostre percezioni, è altrettanto vero che, ammessa l'esistenza materiale delle cose, è Dio che diventa inutile. Anche l'operazione tentata da Berkeley nei confronti della sostanza materiale, ossia la sua dissoluzione in un fatto puramente mentale sulla base di un radicale empirismo, sarebbe riuscita decisamente più convincente se fosse stata coerentemente estesa alla sostanza spirituale, come avrebbe poi fatto David Hume. In questo modo, il monismo spiritualistico e il teismo estremo del brillante vescovo anglicano (il quale, per altro, sembrava talvolta amare il paradosso ancor più del buon Dio), finivano senza volere per portare molta acqua al mulino degli avversari: scettici, atei e (perché no?) materialisti.

MATERIALISMO ED EMPIRISMO

Sotto il nome di materialismo vanno molte cose diverse. C'è chi, per esempio, chiama «materialismo» l'opinione secondo cui non c'è altra mente o spirito all'infuori del funzionamento del nostro cervello. Questa opinione sembra perfettamente ragionevole, ma non è quella che ci interessa qui. Qui conviene chiamare «materialismo» l'opinione secondo cui la materia ha una esistenza reale, indipendentemente dall'attività conoscitiva umana. Di fronte a un baccello pieno di piselli, il materialista dirà: - Ecco un baccello pieno di piselli! - e l'empirista dirà invece: - Ecco un baccello: non c'è alcuna ragione di parlare di piselli finché il baccello non sarà aperto -. Anche se è difficile confutare l'opinione del vescovo Berkeley, secondo cui non c'è niente di niente tranne Dio che imprime nella nostra mente l'idea dei piselli quando crediamo di aprire il baccello, il materialismo resta preferibile all'empirismo. Quest'ultimo infatti scoraggia decisamente la formazione di modelli delle cose non osservate, senza i quali ben poco progresso può essere fatto nella comprensione della natura. Si noti che qui si richiede una versione abbastanza forte del materialismo: non basta credere nella realtà dei corpi macroscopici come alberi, case e sedie, ma occorre ammettere anche la realtà di cose più piccine e più difficili da osservare: gli atomi. Naturalmente questo non significa che occorra credere senza esitare nella realtà di qualunque ente ideato dai fisici per i loro scopi. Per esempio i fisici pensano oggi che le particelle elementari come protoni, mesoni, ecc. siano in realtà composte di altri oggetti ancora più elementari: i quark, i quali però sarebbero per principio inosservabili perché confinati per sempre entro le particelle. È come se s'intravedessero i piselli dentro un baccello, che, però, per principio non può essere aperto. Una tale situazione non può non lasciare perplessi.

HUME

Lo scozzese David Hume (1711-1776) era un uomo di buon senso, ugualmente lontano dalle speculazioni metafisiche dei grandi costruttori di sistemi e dalle geniali e paradossali improvvisazioni del vescovo Berkeley. La sua ambizione era di rifondare lo studio della natura umana sul modello della scienza sperimentale, procedendo con puntuali analisi dei processi mentali e riprendendo con sereno rigore il discorso antidogmatico di Locke dal punto in cui Locke stesso lo aveva abbandonato per tornare alle «certezze» di sempre: Dio, l'anima, il mondo.
L'assunto da cui Hume prendeva le mosse era sempre l'atomismo psichico di John Locke: tutti i contenuti mentali possono essere scomposti in unità elementari costituite, secondo Hume, da impressioni e da idee. Le impressioni sono immagini immediatamente presenti alla mente, chiare, evidenti, «forti»; le idee sono copie sbiadite delle impressioni, e perciò si presentano spesso oscure, ambigue, indistinte. Chiarire le idee significa per Hume recuperare la concretezza delle impressioni originarie. La conoscenza consiste nelle relazioni che si stabiliscono tra le idee; queste relazioni però non necessariamente riproducono l'ordine originario in cui le impressioni si sono presentate alla mente. La memoria conserva il ricordo delle immagini passate e l'immaginazione scompone e ricompone più o meno liberamente quelle immagini producendo le idee complesse. Il meccanismo che presiede all'associazione delle idee è l'abitudine, che generalmente si conforma a criteri di somiglianza o di contiguità nello spazio e nel tempo.
Le idee astratte e generali (l'idea di cane, ad esempio), non hanno altro fondamento che l'abitudine di attribuire a un'idea particolare (quale potrebbe essere l'immagine del mio cane Melampo) la capacità di rappresentare tutte le idee che le somigliano (ossia tutte le possibili immagini di cani): sono soltanto nomi di aggregati di idee semplici, ciascuna delle quali ha il suo fondamento di verità nell'impressione particolare e concreta di cui è copia. Anche l'idea di sostanza non è che un nome. I filosofi hanno chiamato infatti «sostanza» un aggregato di idee semplici costruito per contiguità: l'impressione di una tinta rosata, di una forma rotonda, di una superficie levigata, di un particolare profumo vanno a formare l'idea di quella peculiare sostanza che chiamiamo «mela» perché le rispettive idee si presentano vicine nello spazio e nel tempo. Ma anche lo spazio e il tempo (che Newton definiva come entità assolute, o addirittura come organi di Dio) non sono niente al di fuori delle singole, particolari, concrete impressioni spazio-temporali.
Allo stesso modo l'idea di causalità (sul cui fondamento alcuni filosofi, compreso lo stesso Locke, hanno preteso di dimostrare l'esistenza di Dio, ed altri hanno costruito la visione di un mondo rigorosamente determinato in tutti i suoi più minuti particolari) non ha altro fondamento che l'abito psicologico di stabilire una connessione necessaria tra impressioni che si presentano vicine nel tempo. Se un evento di tipo A precede abitualmente nella nostra esperienza un evento di tipo B, finiamo con il dire: A è causa di B. Nulla però ci autorizza davvero a trasformare una successione temporale in una relazione di causa ed effetto. Ancor meno siamo autorizzati a formulare proposizioni del tipo: ogni evento ha la sua causa oppure a cause simili seguono effetti simili. L'esperienza non giustifica enunciazioni universali e necessarie e la logica non permette di saltare da ciò che è a ciò che deve essere: dal fatto che A ha sempre preceduto B, non è legittimo dedurre che dovrà farlo anche in futuro.
Le conclusioni rigorosamente scettiche del pensiero di Hume non avevano alcuna enfasi drammatica; si presentavano anzi come la negazione di ogni enfasi. Da che mondo è mondo gli uomini avevano sempre creduto ai rapporti di causa, alla permanenza degli oggetti (o sostanze) e alle innumerevoli altre relazioni che si possono istituire tra le idee. Tutte queste credenze li avevano aiutati a vivere, a operare nel mondo, a farsi una ragione delle cose in mezzo alle quali stavano. La coscienza che si trattava di credenze e non di verità non avrebbe in alcun modo impedito che continuassero a svolgere le stesse utili funzioni. Quella coscienza, semmai, scoraggiando dogmatismi, entusiasmi e fanatismi di qualsiasi genere, avrebbe potuto contribuire a rafforzare un poco nel mondo il partito della ragionevolezza.

KANT

La vita di Immanuel Kant è stata assai povera di avvenimenti. Nato nel 1724 e morto nel 1804 a Koenigsberg, capitale della Prussia Orientale (oggi Kaliningrad, nell'enclave baltica della Federazione Russa), non si allontanò mai dalla sua città, salvo quando per qualche anno dovette guadagnarsi la vita come precettore privato: anche in questo periodo, tuttavia, non usci dai confini della sua provincia. Se non amava viaggiare, era però un appassionato lettore di libri di viaggio e di descrizioni di Paesi e popoli lontani: un classico esempio di «viaggiatore a tavolino». Oltre che un sedentario, Kant era un abitudinario. Di costituzione non particolarmente robusta, per salvaguardare la sua salute e mantenere la sua straordinaria capacità di lavoro seguiva rigidissime regole di vita con una puntualità e una pignoleria diventate leggendarie. Il che non gli impediva di essere un uomo assai piacevole, arguto, pieno di curiosità e amante della conversazione. Le sue lezioni, poi, (a differenza dei suoi libri, che sono piuttosto faticosi) pare che fossero per gli studenti «il più piacevole dei trattenimenti», come ha scritto un altro grande pensatore tedesco Johann Gottfried Herder, che era stato suo allievo. Di modeste origini, solo nel 1770, quando ottenne un posto di professore nell'università di Koenigsberg, Kant poté dirsi libero da difficoltà economiche. La sua tranquilla esistenza fu turbata nel 1793 dalle minacciose reazioni suscitate negli ambienti bigotti dalla pubblicazione di alcuni suoi saggi sulla religione. Kant fu ammonito severamente dal Governo perché «aveva usato male del suo ingegno, mettendosi a denigrare e a deformare parecchi dogmi capitali e fondamentali della Sacra Scrittura e del Cristianesimo, agendo così contro i doveri di chi aveva l'incarico ufficiale di insegnare ai giovani». Per obbedienza verso il suo sovrano (e nel timore di perdere l'impiego) Kant si impegnò formalmente a non trattare più argomenti attinenti alla religione.

... Rinnegare le proprie convinzioni lasciò scritto - è cosa spregevole. In questo caso, però, tacere è dovere di suddito. Del resto, se tutto quel che si dice deve essere vero, non è detto che si debba dire sempre tutta la verità...

C'è una quantità di aneddoti sulla carattere abitudinario di Kant. Si racconta per esempio che, siccome usciva tutti i giorni immancabilmente alla stessa ora per fare la sua passeggiata igienica seguendo sempre lo stesso percorso gli abitanti di Koenigsberg avevano finito col regolare i loro orologi sul momento in cui lo vedevano passare.
Due volte soltanto - pare - rinunciò alla sua passeggiata: la prima per leggere l'Emilio di Rousseau, uno dei testi fondamentali dell'Illuminismo, e la seconda per ricevere notizie dalla Francia dove era scoppiata la rivoluzione. Non si può negare che si trattasse di eventi eccezionali, che giustificavano uno strappo alle regole.

LA CRITICA DELLA RAGIONE

Nel mondo degli studiosi la persona di Kant passò quasi inosservata sino alla pubblicazione, nel 1781 (quando Kant aveva ormai cinquantasette anni), di quella che è rimasta la sua opera più importante, la Critica della ragion pura. Molti altri anni furono poi necessari perché la proposta filosofica di Kant fosse compresa nel suo esatto e intiero significato.
Nella Critica della ragion pura, visto l'esito paradossale a cui era giunto il pensiero critico con l'immaterialismo di Berkeley e con lo scetticismo di Hume (del quale aveva una grandissima opinione: disse che lo aveva svegliato dal sonno dogmatico), ma riprendendo la lezione fondamentale dell'empirismo inglese, Kant proponeva in sostanza che l'indagine filosofica fosse rivolta non tanto alla natura delle cose, quanto alla natura della conoscenza umana, ossia ai suoi modi di funzionare, alle sue possibilità e ai suoi limiti. In questo modo, mentre l'esperienza dell'Illuminismo si stava concludendo travolta da meno ragionevoli modi di pensare e di fare, Kant si confermava coerente continuatore dello spirito che l'aveva animata: l'Illuminismo aveva voluto sottoporre ogni cosa alla critica della ragione, Kant estendeva questa critica alla ragione stessa. Questo fondamentale atteggiamento del pensiero kantiano è ciò che si indica col termine «criticismo».
Anche per Kant, come per Aristotele, conoscere vuol dire giudicare, cioè affermare o negare la realtà di qualcosa: la sua gnoseologia cominciava appunto con una teoria dei giudizi. Come si sa, i giudizi analitici (del tipo: «il triangolo ha tre angoli») sono quelli in cui il predicato è compreso nel soggetto. Sono universali e necessari, perché non possiamo negarli senza cadere in contraddizione, ma non fanno avanzare d'un passo la nostra conoscenza perché si limitano a rendere esplicito quel che implicitamente si sapeva già. I giudizi sintetici (del tipo: «Socrate è seduto») sono quelli in cui il predicato può essere attribuito a un soggetto sulla base soltanto dell'esperienza. Nei giudizi sintetici si esprimono delle conoscenze nuove (il fatto di star seduto non discende necessariamente dalla nozione di Socrate), ma si perde l'universalità e la necessità che è propria dei giudizi analitici, tant'è vero che se neghiamo giudizi di questo genere non cadiamo necessariamente in contraddizione (dire che Socrate sta in piedi può essere falso, ma non è affatto contraddittorio).
L'empirismo privilegiava il giudizio sintetico o a posteriori; il razionalismo gli contrapponeva quello analitico o a priori. Kant ipotizzò l'esistenza di un altro tipo di giudizio, il giudizio sintetico a priori, che avrebbe assommato in sé i vantaggi di entrambi. A questo tipo, secondo Kant, appartenevano le proposizioni della scienza fisica (Kant pensava alla meccanica di Newton) e della matematica. Ad esempio l'asserzione: «la somma degli angoli interni di un triangolo è 180 gradi» è un giudizio che ha le caratteristiche della necessità e dell'universalità (è a priori), ma che, al tempo stesso, non è analitico, perché con esso veniamo a sapere qualcosa di nuovo, che non era affatto compreso nella nozione di «triangolo». Stabilito che i giudizi sintetici a priori esistono, restava però da dimostrare come fossero possibili.
Secondo Kant, l'esistenza dei giudizi sintetici a priori può essere spiegata se si ammette che la nostra conoscenza non è un'acquisizione passiva di dati che vengono dall'esterno, ma un'attività che unifica e dà ordine a questi dati, secondo certe forme che sono proprie dell'io. Ogni cosa che diventa oggetto di conoscenza si presenta in un insieme ordinato, e prima di tutto con una sua specifica collocazione nel tempo e nello spazio: la percezione di una mela è fatta di innumerevoli impressioni (colori, odori, sapori, ecc.) ma prima di ogni altra cosa è la percezione di questa mela che sta qui, in questo preciso momento, dopo esser stata raccolta e prima di esser mangiata, sopra (e non sotto) questo tavolo, accanto a questo coltello, ecc. Percepiamo le cose nel tempo e nello spazio non perché tempo e spazio siano realmente una sorta di contenitori dove le cose «stanno», ma perché sono come degli occhiali con i quali riusciamo a percepire le cose e senza i quali nessuna percezione sarebbe per noi possibile. Spazio e tempo sono schemi o forme nei quali inquadriamo e ordiniamo le sensazioni; e sono schemi o forme a priori perché non provengono dall'esperienza, ma anzi sono le condizioni di qualsiasi esperienza sensibile.
Ciò che vale per lo spazio e il tempo, ossia per le forme della sensibilità, vale anche (e soprattutto) per le forme dell'intelletto, che Kant chiama «categorie». Il termine categoria era stato usato da Aristotele per indicare i predicati ultimi e generalissimi (sostanza, qualità, quantità, relazione, ecc.) di cui il pensiero si serve per esprimere la realtà. Senonché, per Aristotele, le categorie dell'intelletto sono modellate sulla realtà, ossia la realtà ha davvero le caratteristiche che questi predicati designano: sostanze, qualità, relazioni, ecc. esistono nelle o tra le cose indipendentemente dall'intelletto umano e prima che l'intelletto se ne formi una nozione. Proprio questo assunto era stato smantellato dalla critica degli empiristi inglesi. Per quanto ci si sforzi di attingere la natura delle cose, avevano detto in sostanza Locke, Berkeley e Hume, tutto ciò che riusciamo a conoscere sono idee, non cose: sostanze, qualità, cause sono mere rappresentazioni, e nulla (tranne la fiducia in un Dio buono e leale) ci induce a credere che alle nostre rappresentazioni debba corrispondere qualcosa di effettivamente esistente al di fuori di noi.
Per Kant le categorie sono le regole che l'intelletto usa per conferire ordine e regolarità ai dati dell'esperienza: non è il pensiero che si adegua alla realtà, come pensava Aristotele, ma è la realtà che, in quanto viene conosciuta, si modella sulle categorie dell'intelletto. I pescatori per ogni tipo di pesce adoperano reti diverse; la mente umana è come una rete le cui maglie sono rappresentate dalle categorie: gli oggetti che vi restano imprigionati sono quelli che si adeguano alla forma e alle dimensioni delle maglie, mentre gli altri (se ci sono) sfuggono alla cattura. Ciò vuol dire, tra l'altro, che il materiale suscettibile di conoscenza è selezionato in anticipo (a priori) dal particolare equipaggiamento intellettuale costituito dalle categorie. Kant esprimeva questa conclusione dicendo che la conoscenza, risultato della sintesi fra la realtà che esiste indipendentemente da noi (le «cose in sé») e le nostre facoltà conoscitive, è conoscenza di fenomeni. I fenomeni (dal greco phainòmenon = «ciò che appare») sono i modi in cui le cose in sé ci si manifestano dopo essere state filtrate dalle forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e dell'intelletto (categorie) E poiché le «cose in sé» senza questi filtri non possono essere conosciute, non si può davvero sapere, ma solo immaginare che esistano: per questo Kant le chiama noùmeni, che in greco significa appunto «entità soltanto pensabili» (da nòus = «mente»). Dei fenomeni, invece, è possibile una conoscenza certa, scientifica, perché non sono i labili fantasmi della nostra coscienza, come suggeriva lo scetticismo di Hume, ma i concreti contenuti di un'esperienza che si realizza secondo forme (spazio, tempo, categorie) che sono necessariamente le stesse in ogni soggetto e perciò universalmente valide.
Le categorie dell'intelletto sono le condizioni o forme a priori che regolano le connessioni tra i fenomeni. Oltre ad esse, Kant ipotizzava una forma suprema, che, condizionando l'uso delle categorie, condiziona in ultima istanza l'intera nostra esperienza. Si tratta dell'io penso (o io puro, io trascendentale, appercezione trascendentale, come anche era chiamato da Kant). Cartesio aveva fatto dell'io una sostanza pensante (la res cogitans). Hume aveva parlato invece dell'io come della semplice somma degli stati d'animo che si susseguono dentro di noi. Kant respingeva nettamente la sostanza cartesiana, ma distingueva altrettanto nettamente l'io di Hume, che è l'«io empirico» (quello cioè che ci è dato dall'esperienza) dall'«io penso», che, come soggetto a cui si riferiscono tutte le nostre rappresentazioni, è la condizione (l'a priori) di ogni esperienza. L'«io penso» o «io trascendentale» è il centro di riferimento che rimanendo invariato nel variare delle rappresentazioni configura la successione (altrimenti caotica) delle rappresentazioni stesse come esperienza unitaria. In quanto sta a fondamento delle categorie, che sono le forme o leggi che imponiamo alla realtà, l'«io penso» è detto da Kant il «legislatore della natura».
Kant diceva di aver compiuto nella filosofia una sorta di «rivoluzione copernicana»: come Copernico aveva finalmente spiegato il movimento degli astri mettendo il Sole e non la Terra al centro dell'universo, così lui aveva cercato di spiegare la conoscenza ponendo al centro del fatto conoscitivo non l'oggetto conosciuto, bensì il soggetto che conosce, l'«io penso», alle cui regole l'oggetto si adegua. A scanso di equivoci, bisogna però tornare a sottolineare fortemente che l'«io penso» di Kant non ha niente a che fare con una presunta sostanza spirituale o con l'anima o con qualsiasi altra escogitazione del genere: esso è una pura forma, ossia una semplice funzione (= modo di funzionare) della conoscenza.
Da questo nuovo punto di vista «copernicano» la metafisica come scienza è impossibile. Di entità come l'anima sostanziale, il mondo (inteso come totalità di ciò che esiste) e Dio non si dà esperienza, e senza esperienza non c'è conoscenza. Le costruzioni della metafisica tradizionale: la psicologia razionale (o dottrina dell'anima sostanziale, da non confondere con la scienza psicologica che è la disciplina descrittiva e sperimentale che si occupa dei fenomeni psichici), la cosmologia metafisica (ossia la dottrina speculativa del mondo come totalità, anche questa da non confondere con le scienze cosmologiche che si occupano dei fenomeni celesti dal punto di vista delle dimensioni, della struttura e del divenire dell'universo) e infine la teologia, apparivano fondate sulla sabbia.
Restava da spiegare per quale ragione la metafisica fosse sorta e che cosa esattamente rappresentasse. Secondo Kant la metafisica è radicata nella natura umana, nel senso che ne esprime un'esigenza profonda. Oltre alla sensibilità e all'intelletto, l'uomo possiede una facoltà cui Kant dà il nome di ragione (in senso stretto). Come facoltà particolare la ragione opera proprio mediante le tre idee dell'anima, del mondo e di Dio. Kant chiama Dialettica trascendentale quella parte della Critica della Ragion pura che è dedicata alla critica delle idee. Queste idee, secondo Kant, indicano una meta ideale alla quale la ragione si sforza perennemente di avvicinarsi. L'idea del mondo, ad esempio, ci spinge a conoscere un sempre maggior numero di fenomeni, anche se sappiamo benissimo che la conoscenza di tutti i fenomeni è un compito infinito, inesauribile. L'idea di un universo come totalità, insomma, è un «ideale regolativo» che non potrà mai essere raggiunto effettivamente, ma che stimola e orienta l'attività conoscitiva. Come tale è perfettamente legittimo, ossia conforme a ragione. C'è però anche un uso illegittimo delle idee, che è (o almeno era al tempo di Kant) il più diffuso: quello - appunto - della metafisica tradizionale, che non le assume come ideali, ma come oggetti di conoscenza e si affanna a dimostrare che Dio o l'anima esistono oppure che il mondo è finito (o infinito). Ma le dimostrazioni di questi assunti sono illusorie, perché, pretendendo di applicare le categorie dell'intelletto a entità meramente noumeniche, riescono soltanto a riprodurre eternamente le stesse, insolubili antinomie (ossia, nella terminologia di Kant, quelle argomentazioni che presentando lo stesso grado di plausibilità, giungono a conclusioni esattamente opposte). Con ciò - come ormai dovrebbe essere chiaro - Kant non intendeva affatto negare l'esistenza dell'anima o quella di Dio: tentare di dimostrare che l'anima o Dio non esistono è quasi altrettanto irragionevole quanto tentare di dimostrare che esistono.

RAGIONE

Nella filosofia greca e medioevale con il termine ragione è stata generalmente indicata la facoltà che presiede al pensiero discorsivo, al pensiero cioè che trascorre da una conoscenza all'altra senza mai arrestarsi in una certezza finale. Così, S. Tommaso distingueva il ragionare dall'intendere: il primo, che si muove continuamente da una conoscenza all'altra, e proprio di una creatura imperfetta quale è l'uomo, mentre il secondo, che consiste in un possesso definitivo e totale della verità, può appartenere soltanto ad un essere perfetto come è Dio. Kant ha operato un cambiamento notevole nell'uso dei termini chiamando «intelletto» ciò che la tradizione precedente aveva chiamato ragione, ossia il pensiero discorsivo. Quanto alla ragione, Kant la distingue sia dalla sensibilità (che apprende gli oggetti intuiti dal senso) sia dall'intelletto (che ordina i dati offerti dalla sensibilità). Kant distingue poi un uso teorico e un uso pratico della ragione. Nel suo uso teorico o «puro» la ragione ci fornisce le idee più generali sulla cui base regolare l'attività dell'intelletto; nel suo uso «pratico» ci detta le leggi del comportamento morale, anch'esse a priori, nel senso appunto che non sono desunte dall'esperienza ma tratte dalla ragione stessa.

CRITICA

In antico si denominava «critica» (dal greco kritiké tèchne = «arte del giudicare», da krìnein = «distinguere») quella parte della logica che si occupa dei giudizi. Più in generale «critica» significa libero e pubblico esame (di un principio teorico, di un evento, di un comportamento, ecc.) diretto ad esprimere un giudizio di verità (vero/falso, possibile/impossibile, ecc.) o di valore (bello/brutto, buono/cattivo, ecc.). Il termine quale è usato da Kant (l'esame a cui la ragione sottopone se stessa) non è che una specificazione di questo significato. Si dice «spirito critico» l'atteggiamento di chi non accetta nessuna asserzione senza verificarne la fondatezza. Comunemente per critica si intende innanzi tutto la valutazione estetica di un prodotto letterario, artistico ecc. In un senso esclusivamente negativo e sinonimo di biasimo o censura.

A PRIORI, A POSTERIORI

Le espressioni latine a priori = «da ciò che viene prima») e a posteriori = «da ciò che viene dopo») sono state usate dai filosofi medievali per indicare due forme di conoscenza: a priori quella ottenuta col solo esercizio della pura ragione, senza ricorrere all'esperienza; a posteriori quella che può derivare solo dall'esperienza. La distinzione corrisponde dunque a quella tra giudizio analitico e giudizio sintetico. Kant ha ripreso il termine a priori dandogli però un valore nuovo (fondamentale per tutto il pensiero contemporaneo). A priori è per Kant ciò che non può essere ricavato dall'esperienza perché costituisce il presupposto dell'esperienza stessa. A priori sono le forme della sensibilità (spazio e tempo) e dell'intelletto (categorie), che sono le condizioni che rendono possibile l'esperienza: vengono dunque prima dell'esperienza, ma solo logicamente, non temporalmente. Anche l'a posteriori non indica più in Kant una conoscenza che viene dopo (in senso cronologico) l'esperienza, ma il contenuto o la materia del conoscere, quel contenuto e quella materia che vengono ordinati e plasmati dalle forme a priori.
Nel linguaggio comune, l'espressione a priori viene usata nel senso di non controllato, non verificabile, preconcetto (es.: non si può dire a priori che il Governo non realizzerà il suo programma), Sempre in senso estensivo a posteriori ha spesso il valore di «col senno di poi», «a cose fatte» (es.: è facile dire adesso, a posteriori, che la nostra squadra avrebbe perso).

TRASCENDENTALE

Nella terminologia kantiana (non sempre rigorosamente rispettata, in verità, dallo stesso Kant) trascendentali sono gli elementi (forme o condizioni) a priori della conoscenza. «Trascendentale» si contrappone pertanto ad «empirico» (che è il dato di esperienza, l'a posteriori) e a «trascendente», che, sempre nella terminologia kantiana, indica quel genere di concetti metafisici che, come avviene nell'uso illegittimo delle idee di Dio, anima e mondo, oltrepassano le possibilità della nostra conoscenza e pretendono contraddittoriamente di utilizzare le forme a priori dell'esperienza (come le categorie di sostanza, causa, ecc.) fuori dell'esperienza stessa, applicandole alle cose in sé, ai noumeni.

THOMAS DE QUINCEY

L'inglese Thomas De Quincey (1785-1859), autore di Confessioni di un oppiomane (1821) e di L'assassinio come opera d'arte (1827), associava l'immaginazione di uno scrittore eccentrico e paradossale al rigore di un erudito; le sue ricostruzioni storiche (come quella de Gli ultimi giorni di Immanuel Kant), hanno sempre un che di irreale e di ambiguo. Dotato di un gusto un po' decadente per quanto di bizzarro, di stravagante, di grottesco si nasconde nella vita di tutti i giorni, De Quincey era affascinato dall'esistenza di Kant, «notevole non tanto per i suoi avvenimenti, quanto per la purezza e la dignità filosofica del suo tenore quotidiano». De Quincey volle cogliere questo stile di vita nel momento del suo disfacimento, quando l'ormai anziano filosofo cercava inutilmente di opporre una barriera di decorose consuetudini al progressivo decadere delle sue capacità fisiche e mentali. Lo straordinario nel modo di vivere di Kant era stato appunto l'assoluto imperio dell'ordine, mai mescolato a banalità o grettezza, ma piuttosto condizione per il pieno apprezzamento dei piaceri dell'intelligenza e della socievolezza. De Quincey ricorda, tra le altre cose, l'importanza che Kant attribuiva ai suoi ricevimenti, tradizionali occasioni di incontro e di conversazione, e la cura che dedicava alla loro organizzazione.
[Kant] ogni giorno invitava pochi amici a pranzare con lui, in modo che il gruppo (lui incluso) andasse da un minimo di tre a un massimo di nove persone, e per ogni piccola celebrazione ne comprendesse da cinque a otto. Egli era, di fatto, puntualmente ossequiente alla regola di Lord Chesterfield - secondo cui, a un suo pranzo, il numero dei convitati non doveva scendere al di sotto del numero delle Grazie, né superare quello delle Muse. In tutta l'economia della sua casa, e specialmente dei suoi pranzi, c'era qualcosa di strano, e di amenamente opposto agli usi convenzionali della società; non perciò, tuttavia, vi era una qualche negligenza del decoro, quale talvolta si incontra nelle case dove non vi sono dame che sappiano imporre un certo tono nelle maniere. La routine, che mai in alcuna circostanza variava o si allentava, era questa: appena il pranzo era servito, Lampe, il vecchio valletto del professore, si faceva avanti nello studio con una certa aria contegnosa, e ne dava l'annuncio. Questo richiamo era seguito con la massima velocità - mentre Kant continuava a parlare del tempo che faceva, argomento su cui egli usava intrattenersi ancora durante la prima parte del pranzo. Temi più gravi, quali gli avvenimenti politici del giorno, non venivano mai introdotti prima del pranzo, e soprattutto non nel suo studio. Appena Kant si era seduto e aveva spiegato il suo tovagliolo, apriva la nuova fase con una formula speciale: «Avanti, signori!». Le parole non sono nulla; ma il tono e l'aria con cui egli le pronunciava proclamavano in modo inconfondibile il rilassarsi dalle fatiche del giorno e il deliberato abbandonarsi al piacere della società. La tavola era liberalmente apparecchiata; vi era una sufficiente scelta di piatti per venire incontro alla varietà dei gusti e le caraffe del vino non erano poste a lato su tavolini distanti, o sotto l'odioso controllo di un domestico ma anacreonticamente sulla tavola, e a portata di mano per ogni convitato. Ciascuno si serviva da solo; e qualsiasi ritardo dovuto a un troppo elaborato spirito di cerimonia era così fastidioso per Kant che egli raramente mancava di esprimere il suo disappunto per cose del genere, seppur senza astio [...].
Non c'era amico di Kant che non considerasse il giorno in cui avrebbe pranzato con lui come un giorno di festa. Senza darsi un'aria di maestro, Kant lo era realmente al più alto grado. Tutto l'intrattenimento era insaporito dalle spezie del suo spirito illuminato, che si profondeva e riversava con naturalezza e senza affettazione su tutti gli argomenti, via via che il procedere del conversare gliene dava occasione, e il tempo volava via rapidamente, dall'una alle quattro, alle cinque e anche sino a più tardi, con profitto e piacere per tutti. Kant non tollerava le bonacce, così infatti chiamava le pause momentanee della conversazione, quando la sua animazione languiva. Riusciva sempre a escogitare qualche maniera per riattivare l'interesse; e in questo era molto aiutato dal tatto con cui riusciva a trarre fuori da ogni ospite i suoi gusti personali o il particolare indirizzo delle sue ricerche: e su queste, qualsiasi esse fossero, egli era sempre preparato a parlare con competenza e con l'interesse di un osservatore originale. Gli avvenimenti locali di Königsberg dovevano essere davvero di straordinario interesse perché egli tollerasse che usurpassero l'attenzione alla sua tavola. E, il che può sembrare ancora più singolare, raramente, o piuttosto mai, egli guidava la conversazione verso un qualche ramo della filosofia che egli stesso aveva fondato. In effetti era totalmente indenne dal difetto che hanno tanti dotti e tanti letterati: l'intolleranza per chi si sia dedicato a ricerche che non abbiano alcuna particolare affinità con le proprie. Nella conversazione il suo stile era familiare al più alto grado e non scolastico, a tal punto che un qualsiasi estraneo, che avesse una qualche conoscenza delle sue opere, ma non della sua persona, avrebbe trovato difficile credere che in questo amabile e cordiale compagno si trovava di fronte il profondo autore della Filosofia Trascendentale.
Non soltanto quale compagno di conversazione Kant brillava, ma anche come ospite di grande cortesia e generosità, il quale trovava tutto il suo piacere nel vedere i suoi invitati, allegri e gioviali, alzarsi con spirito rasserenato dai suoi conviti platonici, dopo aver goduto di quella loro mescolanza di piaceri intellettuali e liberalmente sensuali. E forse soprattutto per favorire quello stato di amabile ilarità egli si dimostrava in certo modo un artista nella composizione dei suoi pranzi. Aveva due regole che manifestamente osservava e alle quali non lo vidi mai mancare: la prima, che la compagnia fosse mista e disparata, il che serviva a dare una sufficiente varietà alla conversazione: di conseguenza i suoi invitati offrivano tutte le varietà che si potevano incontrare nel mondo di Königsberg. Tutti i generi di vita vi erano rappresentati: funzionari, professori, medici, ecclesiastici e mercanti illuminati. La seconda regola era di avere una giusta quota di persone giovani, e spesso giovanissime, scelte tra gli studenti dell'università, al fine di dare alla conversazione un certo movimento di gaiezza e giocosità giovanile.

Tra gli aneddoti più divertenti riportati da Thomas De Quincey c'è sicuramente quello dello straordinario congegno inventato da Kant per evitare l'uso delle giarrettiere, che secondo i suoi precetti igienici (di «economia animale» dice De Quincey) giudicava poco salutare.

... Poiché stiamo qui esponendo le nozioni che Kant aveva sull'economia animale, sarà bene aggiungere un altro particolare, che consiste in questo: per paura di ostruire la circolazione del sangue, non portava mai giarrettiere; così, poiché gli riusciva difficile tenere le calze tirate senza il loro aiuto, aveva inventato per suo uso un qualcosa di molto elaborato per sostituirle, che vi descriverò. In un minuscolo taschino, un po' più piccolo di un taschino da orologio, ma disposto più o meno come un taschino di orologio, su ciascuna coscia era collocata una piccola scatola simile all'astuccio di un orologio ma più piccola; in questa scatola era collocata una molla da orologio a spirale e attorno a questa spirale un elastico, e per regolarne la tensione vi era un apposito congegno. Alle estremità dell'elastico erano attaccati dei ganci, i quali ganci passavano attraverso una piccola apertura dei taschini, e così, scendendo sulla parte interna e esterna delle cosce, si infilavano in due occhielli fissati nella parte esterna e interna di ciascuna calza...

L'AUTONOMIA DELLA MORALE

Il criticismo kantiano non riguardava solo l'ambito della conoscenza (anche se qui ha dato i suoi frutti migliori), ma investiva tutte le funzioni della ragione. Alla Critica della ragion pura Kant fece seguire nel 1787 una Critica della ragion pratica (cioè delle leggi della nostra volontà e del nostro agire morale) e nel 1790 una Critica del giudizio (cioè del nostro modo di atteggiarci nei confronti del bello e delle finalità che ci sembra di poter cogliere nella Natura).
L'uomo, dice Kant nella Critica della ragion pratica, non è né un bruto né un Dio. È piuttosto il cittadino di due mondi: quello degli istinti e quello della ragione. Se non fosse così la norma morale non avrebbe alcun significato: un essere puramente razionale compirebbe infallibilmente il proprio dovere, mentre a un essere privo di ragione non avrebbe senso chiedere di comportarsi diversamente da come si comporta. La moralità è propria dell'uomo, perché l'uomo può tramite comandi (o imperativi) imporre agli impulsi e alle inclinazioni sensibili la legge della ragione.
Kant distingue però due tipi di imperativi: ipotetici e categorici. L'imperativo ipotetico comanda in modo condizionato (ossia subordinatamente ad una ipotesi) esigendo che, se si vuole ottenere un certo scopo, si faccia tutto quello che è opportuno o necessario (per esempio: «se vuoi conservarti in buona salute, non fumare»). Si tratta insomma di un semplice consiglio tecnico, che non ha nulla a che fare con la morale. L'imperativo morale è invece quello categorico, che è un comando assolutamente incondizionato, che prescinde, cioè, da qualsiasi considerazione relativa alle conseguenze, utili o dannose, dell'azione comandata.
La morale, secondo Kant, non può che essere «autonoma» (dal greco autòs = «se stesso» e nòmos = legge: «che dà legge a se stesso»): l'uomo infatti desume la norma morale dalla ragione, cioè da se stesso. Una morale «eteronoma» (dal greco héteros = «altro», «diverso»), tale cioè da subordinare il comportamento dell'uomo ad un sistema di premi e di castighi (come quella di molte religioni, Cristianesimo incluso), non è affatto una morale. Se infatti il comando si desumesse da qualcosa di diverso dalla ragione, non si tratterebbe di imperativo categorico, ma di una semplice costrizione moralmente priva di significato. Non fa alcuna differenza che questo qualcosa di diverso che ordina e impone sia rappresentato dall'interesse egoistico, dagli istinti naturali, dalla volontà dello Stato o dalla volontà di Dio: «Se vuoi andare in Paradiso ama il prossimo tuo», «Se non vuoi andare in galera paga le tasse», «Se vuoi liberarti di tua suocera, uccidila» sono consigli tecnici (ossia imperativi ipotetici) perfettamente equivalenti dal punto di vista morale (perché tutti ugualmente privi di valore morale).
L'imperativo categorico non può avere alcun contenuto determinato (non può ordinare questa o quella azione particolare) perché non e che la pura forma universale del dovere, che Kant ha cercato di esprimere nelle formule: «Agisci in modo che la massima del tuo volere possa essere considerata espressione d'una legge universale»; «Agisci in modo da considerare sia la tua sia l'altrui persona sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo»; «Agisci in modo che la tua volontà possa essere considerata come istituente una legislazione universale». Comandi come «Non uccidere», «Non rubare», «Non desiderare la donna d'altri» non sono affatto imperativi morali, perché, anche se in genere è effettivamente meglio non uccidere, non rubare e non desiderare la donna d'altri, la cosa non può essere affermata per tutte le situazioni possibili: essi mancano dunque dei caratteri di necessità e di universalità che contraddistinguono la legge morale.
Nella Critica della ragion pura Kant aveva affermato che all'infuori del mondo dei fenomeni non c'è alcuna conoscenza certa. Nella Critica della ragion pratica Kant ammetteva la possibilità di uscire, tramite l'uso pratico della ragione, dal mondo dei fenomeni, e in questo senso attribuiva alla ragione pratica rispetto alla ragione pura una sorta di primato. L'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima e la libertà dell'uomo, di cui la ragione conoscitiva non sa nulla e non può affermare nulla, sono ugualmente delle certezze per l'uomo, in quanto postulati della sua ragione pratica. Il termine «postulato», preso a prestito dalla matematica, indica una proposizione che, pur non potendo essere dimostrata vera in modo diretto, deve essere accettata per vera in quanto è presupposta da un'altra che si ritiene incontestabile. I postulati della ragion pratica sono dunque gli assunti considerati da Kant indispensabili per la vita morale. La libertà dell'uomo, per esempio, è un assunto di questo genere, perché, senza libertà non ci sono né meriti né colpe e senza meriti e colpe non ha senso parlare di morale: se la seggiola su cui sediamo è scomoda la colpa non è sua, ma di chi l'ha costruita, che, appunto in quanto persona libera, avrebbe potuto costruirla diversamente.
Come si vede fra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica c'era un contrasto difficilmente sanabile. L'una aveva affermato che solo il mondo fenomenico, dominato dalla necessità, è oggetto di scienza, mentre la seconda indicava l'essenza profonda della nostra realtà nella libertà, ossia in un'entità tipicamente noumenica. La Critica del Giudizio tentava di attenuare questo contrasto, ponendosi il problema di una considerazione della Natura diversa da quella strettamente deterministica e meccanicistica della scienza, e cioè ricercando il fondamento e la validità di giudizi, come i giudizi estetici e i giudizi teleologici, di natura completamente diversa da quelli studiati nella prima Critica.
Perfino nelle più semplici manifestazioni naturali - osservava Kant è possibile cogliere un ordine e una finalità che è difficile ricondurre alle spiegazioni di tipo causale fornite dalla scienza: «nessuna conoscenza di tipo meccanico - affermava può sperare di riuscire a spiegare anche soltanto un filo d'erba». Per comprendere gli organismi viventi, insomma, sarebbe necessario porsi anche dal punto di vista del fine in funzione del quale operano e si sviluppano. I giudizi teleologici (télos in greco significa «fine») considerano la Natura come se fosse stata creata da un essere intelligente secondo un disegno (e cioè in vista di un fine). Questo tipo di giudizio non ha un valore oggettivo (come quello che hanno le proposizioni della scienza) ma soltanto soggettivo, in quanto è espressione dell'esigenza del nostro spirito di ritrovare nella Natura un ordine simile a quello che crediamo esistere nel mondo della morale.

FICHTE E L'IDEALISMO TEDESCO

Con Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), sedicente allievo di Kant, inizia la corrente detta dell'«idealismo tedesco». Al centro della sua speculazione stava il concetto dell'infinita creatività dell'Io, derivato (ma con un sensibile spostamento di significato) dal concetto kantiano di «io penso». Per Kant il mondo dell'esperienza esisteva in quanto il pensiero umano lo modellava secondo le sue leggi, ma l'attività dell'io aveva un doppio limite: per un verso, l'«io penso» era pura forma e applicava le sue categorie ad una materia che riceveva dal di fuori; per un altro verso era limitato dalla realtà noumenica (le cose in sé) che trascendeva il mondo dell'esperienza e perciò non era oggetto di scienza, ma, semmai, di credenze. Fichte (e con lui tutto l'idealismo tedesco) ha eliminato questo duplice limite e, affermando il carattere assoluto ed infinito dell'Io (o Spirito) e negando la possibilità stessa della cosa in sé (in quanto nulla può essere all'infuori dell'Io), è tornato a quel genere di speculazioni metafisiche di cui Kant aveva dimostrato l'inconsistenza scientifica.
L'attività creatrice dell'Io, secondo Fichte, si manifesta in tre momenti distinti. Dapprima l'Io pone se stesso, poi contrappone a sé un ostacolo (o «Non-Io»), ma solo per poterlo superare, come avviene nel terzo momento, che rappresenta la sintesi dei primi due. Concluso un ciclo, il processo ricomincia da capo, ma a un livello superiore: il punto d'arrivo del ciclo precedente è il punto di partenza di quello successivo. Questa attività non si esaurisce mai perché l'Io persegue un ideale di autorealizzazione assoluta che di fatto non può mai essere raggiunto.
L'idea di una tensione infinita dell'Io verso una meta irraggiungibile rifletteva alcuni dei più popolari temi del Romanticismo: quello dell'eterna irrequietezza (in tedesco: Sehnsucht) contrapposta alla classica imperturbabilità del filosofo e alla tranquillità dell'uomo di buon senso, e quello della «nostalgia», che nascerebbe dalla coesistenza nell'uomo del desiderio dell'infinito e della coscienza della sua inaccessibilità. In effetti Fichte faceva parte del cosiddetto «gruppo di Jena», uno dei primi e dei più importanti cenacoli del movimento romantico in Germania, in cui si ritrovarono negli ultimi anni del Settecento il filosofo Schelling, il poeta Novalis (1772-1801), lo scrittore Ludwig Tieck (1773-1853) e soprattutto, con il ruolo di guide e animatori, i fratelli August Wilhelm (1767-1845) e Friedrich (1772-1829) Schlegel, critici e teorici dell'arte e della letteratura.
Questi legami aiutano forse a capire perché una costruzione astrusa e un po' bislacca come la filosofia fichtiana abbia potuto riscuotere uno straordinario successo e perché Friedrich Schlegel abbia potuto affermare che la pubblicazione nel 1794 della Dottrina della scienza di Fichte aveva rappresentato, insieme a quella del Wilhelm Meister di Goethe nel 1796 e insieme, niente po' po' di meno, alla Rivoluzione Francese, uno dei tre maggiori avvenimenti dell'ultimo Settecento.
Nell'ambiente filosofico Fichte era stato tenuto a battesimo proprio da Kant, che gli aveva fatto pubblicare un'operetta sulla religione e sulla morale ispirata alle sue dottrine. L'amicizia di Kant gli aveva assicurato una certa notorietà tanto che nel 1794 gli era stata affidata (su segnalazione di Goethe) la cattedra di filosofia all'università di Jena. Dopo la pubblicazione della Dottrina della scienza, però, Kant fu costretto a sconfessare pubblicamente Fichte, che continuava a spacciarsi per suo allievo e interprete. Fichte accolse garbatamente le precisazioni di Kant, resistendo alle pressioni del giovane Schelling, che, nominato (sempre per suggerimento di Goethe) suo coadiutore nell'insegnamento della filosofia, lo incitava a dar battaglia senza reticenze, in nome dell'idealismo, al vecchio e prestigioso maestro.
Friedrich Schelling aveva un orgoglio smisurato ed era quel che si dice un caratteraccio. Con amici e nemici era duro «come il granito» (la similitudine è della moglie, Carolina, che Schelling aveva portato via al più anziano dei fratelli Schlegel), tant'è vero che della sua esuberante vena polemica fecero tra i primi le spese proprio Fichte e l'altro grande esponente dell'Idealismo tedesco, Hegel, che era stato compagno di studi di Schelling e che Schelling nel 1801 aveva voluto con sé a Jena, ma che si attirò il suo odio non appena mostrò di dissentire da alcune sue tesi filosofiche.
Con Fichte il terreno su cui maturò la rottura fu quello, all'inizio meramente speculativo, della definizione di Natura. Fichte aveva identificato la Natura con il Non-Io. Schelling non condivideva questa riduzione della Natura a mera negatività e tentò un capovolgimento delle tesi fichtiane: se Fichte aveva detto che l'Io è tutto, Schelling si propose di dimostrare che Tutto è Io (o Spirito). Dato il temperamento dei protagonisti, il dissenso teorico degenerò rapidamente in rivalità personale.
Interessato alle indagini che si andavano conducendo nei settori della chimica e della biologia, ma propenso a manipolarle a suo piacere, Schelling credeva di poter fondare su ambigue e frammentarie indicazioni sperimentali un'immagine della Natura come qualcosa di vivente, per la cui comprensione il ricorso alle cause finali sarebbe stato legittimato non da un'esigenza soggettiva, come aveva sostenuto Kant nella Critica del Giudizio, ma dalla presunta scoperta di una effettiva struttura teleologica del mondo. In un'epoca in cui la scienza newtoniana, materialistica e meccanicistica, era più che mai solidamente piantata nel mondo intellettuale europeo (anche se generalmente poco amata dai romantici), Schelling ebbe la romantica e tedesca audacia (altri tedeschi, a cominciare da Goethe, si erano avventurati per la stessa strada) di riproporre una «fisica speculativa» che faceva praticamente tabula rasa di due secoli di riflessioni metodologiche. Nel suo incauto entusiasmo naturalistico Schelling era rimasto particolarmente impressionato dai fenomeni elettrici e magnetici, che erano allora di moda e che, secondo lui, indicavano la presenza in tutta la Natura di una polarità positiva-negativa, nella quale riteneva di poter individuare il principio del costante «potenziamento» della Natura stessa verso forme sempre più alte di organizzazione. Ogni forma naturale, diceva in sostanza Schelling, è la sintesi di forze opposte, un momento di equilibrio tra tendenze contrarie: ma ogni equilibrio è provvisorio, perché inevitabilmente superato dallo sforzo incessante della Natura di trovare sempre nuovi (e superiori) equilibri.
Fra Natura e Spirito, fra vita inconscia e vita cosciente c'era dunque, secondo Schelling, un perfetto parallelismo: come la Natura evolve da forme indistinte verso forme sempre più organizzate, così l'Io procede dai gradi elementari della sensazione alla piena coscienza di se stesso. Questo parallelismo dimostrava che alla base di entrambi c'era un unico principio, l'Assoluto, che non era né Spirito né Natura, né soggetto né oggetto, né ideale né reale, né inconscio né coscienza, ma tutte queste cose insieme. L'Assoluto era insomma identità degli opposti o indistinzione originaria del Tutto, che, secondo Schelling, solo nell'esperienza artistica poteva essere concretamente compresa e vissuta. Mentre i procedimenti logici rimangono infatti prigionieri delle antinomie e non sono in grado di afferrare la realtà profonda dell'Essere, l'opera d'arte che è frutto tanto d'ispirazione inconscia quanto di progettazione e di esecuzione consapevoli, partecipa di quell'unità dei contrari che è alla radice del Tutto. L'arte era dunque per Schelling «organo universale della filosofia». Negli ultimi anni della sua vita Schelling finì per cedere sempre più a suggestioni teologiche. Influenzato dalla mistica di Jakob Böhme, ha immaginato l'Assoluto come Dio, e Dio come il protagonista di una sorta di dramma cosmico: in Dio convivono Bene e Male; per liberarsi di quel residuo di oscurità che lo condiziona ed espellere da sé il male, Dio deve, per così dire, contrarsi. L'uomo è sbalzato fuori dall'Assoluto, si distacca dal fondo divino, si contrappone a Dio, cade nel finito. Con la caduta comincia il male ma, insieme, la redenzione dell'uomo dal male. Non si tratta di una vicenda che possa essere spiegata, dimostrata o dedotta; può essere solo raccontata ed è soprattutto il pensiero mitologico che, con le sue immagini primordiali, riesce a coglierne il senso.

FICHTE E SCHELLING: NOTE BIOGRAFICHE

Nato in una poverissima famiglia di contadini, da bambino Johannes Amadeus Fichte (1762-1814) si era guadagnato da vivere come guardiano di oche e come apprendista tessitore. Un giorno un ricco possidente del paese lo aveva sentito ripetere a memoria il sermone pronunciato dal pastore alla funzione domenicale e, colpito dall'ingegno di quel ragazzino, aveva deciso di farlo studiare a sue spese. Quando il suo benefattore morì, Fichte preferì impiegarsi come precettore privato e affrontare la precarietà di una tale sistemazione piuttosto che abbracciare la carriera ecclesiastica alla quale era destinato.
Le sue difficoltà economiche ebbero termine nel 1794 quando gli venne affidato l'insegnamento della filosofia nell'università di Jena. Dopo appena cinque anni, però, dovette lasciare la cattedra per sospetto ateismo. Aveva fatto circolare un articolo di un allievo dove si diceva tra l'altro che credere in Dio non era affatto un dovere e che, semmai, era doveroso "agire come se vi si credesse". In segno di protesta per la reprimenda che gli era stata inflitta su pressione dei bigotti e ritenendo che i tempi fossero maturi per una pubblica rivendicazione della libertà di pensare, diede le dimissioni dall'insegnamento convinto che sarebbero state respinte; ma le autorità accademiche, sollecite, come è loro consuetudine, più del quieto vivere che della libertà, si affrettarono ad accettarle.
Cacciato da Jena, dove il suo amico-rivale Schelling non esitò a succedergli nell'insegnamento, per qualche anno visse tra Berlino, Köenigsberg e Copenaghen. Alla fine, nel 1810, venne chiamato alla cattedra di filosofia della nuova università di Berlino, che anche per merito suo divenne una delle più prestigiose della Germania.

Friedrich Schelling (1775-1854) ebbe una vita assai più facile di quella di Fichte. Entrato giovanissimo nel seminario di Tubinga, strinse amicizia con due condiscepoli d'eccezione: Friedrich Holderlin (1770-1843), uno dei maggiori poeti della sua generazione, e Georg Wilhelm Hegel, che sarebbe diventato, con grande dispiacere di Schelling, il più autorevole esponente della filosofia idealistica. Nel 1798, a Weimar, Schelling ebbe modo di conoscere i massimi scrittori tedeschi del momento, Friedrich Schiller (1759-1905) e Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) e proprio il favore di quest'ultimo gli permise di essere nominato, poco più che ventenne, coadiutore di Fichte nell'insegnamento della filosofia all'università di Jena. A Jena, da dove Fichte era stato cacciato nel 1799, Schelling fu raggiunto da Hegel nel 1801.
Qui pubblicò alcune delle sue opere migliori (tra cui il Sistema dell'idealismo trascendentale, 1800) e due riviste, la "Zeitschrift fur spekulative Physik" (Rivista di fisica speculativa), dedicata alle sue predilette elucubrazioni parascientifiche, e più tardi, in collaborazione con Hegel, il "Kritisches Journal der Philosophie" (Giornale critico di Filosofia).
Dopo gli intensi ma brevi anni di Jena, Schelling (che nel 1806 era diventato membro dell'Accademia delle Scienze di Monaco) si condannò gradualmente, soprattutto per il suo caratteraccio, all'isolamento. Ne uscì solo da vecchio quando, morto nel frattempo Hegel, il vecchio amico per il quale ormai nutriva un odio tanto profondo quanto ingiustificato, fu chiamato dal re di Prussia, Federico Guglielmo IV, a insegnare all'università di Berlino proprio con l'incarico di contrastare la perdurante influenza del panteismo hegeliano e di restaurare lo schietto spirito religioso del primo romanticismo.

IDEALISMO

In generale può dirsi idealistica ogni dottrina che sottolinei la centralità della mente (o dell'anima, dello spirito, dell'io) rispetto a ciò che non e mente. La forma più antica di idealismo è quella di Platone; per il quale la vera realtà e idea, mentre l'esperienza sensibile e soltanto apparenza. L'idealismo platonico può essere chiamato idealismo oggettivo, in quanto le idee sono considerati entità esistenti per proprio conto. Completamente diverso è l'idealismo tedesco che riduce tutta la realtà alla conoscenza e anzi intende l'attività conoscitiva dell'io come principio creatore di ogni realtà. Anche la filosofia di Berkeley era una forma di idealismo: Berkeley, infatti, aveva ridotto la realtà alle rappresentazioni (chiamate anch'esse idee, ma in un significato diverso da quello platonico) che il soggetto ne ha: esse est percipi. Per Berkeley, però, il soggetto che percepisce era la coscienza finita del singolo, nettamente distinta dalla coscienza infinita di Dio. L'idealismo tedesco tende invece a identificare finito e infinito, Io (con la I maiuscola) e Dio. Così, anche il concetto kantiano di «cosa in sé» viene rifiutato dagli idealisti tedeschi e in genere ogni forma di trascendenza viene da loro dissolta in una concezione che assimila il Mondo a Dio la Natura allo Spirito e la Realtà alla Ragione (tutti scritti con le iniziali maiuscole, di cui Romantici e Idealisti facevano grande uso).

HEGEL

Georg Wilhelm Friedrich Hegel era nato a Stoccarda nel 1770. Morì a Berlino, nella cui università occupava la cattedra che era stata di Fichte, nel 1831. La sua famiglia, che apparteneva alla piccola borghesia protestante, lo aveva avviato alla carriera ecclesiastica mandandolo al seminario protestante di Tubinga. Qui Hegel aveva conosciuto Holderlin e Schelling ed aveva condiviso con loro l'entusiasmo per gli ideali della rivoluzione francese. Terminati gli studi, come i suoi compagni (e come Fichte, prima di loro) aveva rinunciato a proseguire la carriera ecclesiastica e si era impiegato come precettore privato prima a Berna e poi a Francoforte. Nel 1801 Schelling lo aveva chiamato a Jena, dove rimase fino al 1807, quando la città fu occupata da Napoleone. Al periodo di Jena risale la prima delle sue grandi opere, la Fenomenologia dello Spirito (1807). Dopo una breve esperienza di giornalista, Hegel insegnò filosofia nel ginnasio di Norimberga, di cui fu anche direttore. Chiamato nel 1816 all'università di Heidelberg, nel 1817 pubblicò l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che era la prima esposizione sistematica del suo pensiero. Dal 181 alla morte insegnò all'università di Berlino ottenendo uno straordinario e duraturo successo: come raramente capita ai professori di filosofia, quella di Hegel divenne una vera e propria "scuola", che ancora oggi, a più di un secolo e mezzo dalla morte del fondatore, trova estimatori, cultori e perfino (camuffati magari sotto etichette diverse) impenitenti seguaci.
L'ultima grande opera di Hegel, i Lineamenti della filosofia del diritto fu pubblicata nel 1821, mentre nel 1827 uscì la seconda edizione largamente rinnovata dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche. Dopo la sua morte, e a cura dei suoi discepoli e seguaci, furono pubblicati i corsi che aveva tenuto all'università, tra i quali, per la larga influenza esercitata sulla cultura europea, sono particolarmente importanti quelli dedicati alla Filosofia della storia.

Nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito, che è del 1807, si trova la celebre critica di Hegel all'Assoluto schellinghiano: l'Assoluto come identità indifferenziata di Natura e Spirito, di soggetto e oggetto, di conscio e inconscio è come «una notte in cui tutte le vacche sono nere»: una nozione vuota, astratta. Ad evitare questa astrattezza, sosteneva Hegel, occorre concepire l'Assoluto come divenire, come storia. L'Assoluto non può essere colto con una semplice intuizione, come pretendeva Schelling, ma con un processo razionale (discorsivo) che segua la stessa legge di sviluppo della realtà. Questa legge comune al pensiero e alla realtà è la triade dialettica di tesi, antitesi e sintesi. Nel campo del pensiero, ad ogni affermazione (tesi), fa seguito una negazione (antitesi), e l'astrattezza di questa antinomia (che nella dialettica kantiana restava irrisolta) spinge il pensiero a negare la negazione, ossia a superare l'unilateralità e la parzialità della tesi e dell'antitesi nella concretezza d'una «sintesi» che è unità, mediazione o conciliazione di entrambe. Anche nella realtà la dialettica è all'opera ovunque: ad esempio in una sostanza naturale come l'acqua, che è sintesi di ossigeno e idrogeno, oppure in una realtà umana come la famiglia, che rappresenta il «superamento» dell'opposizione fra uomo e donna.
Tipico della sintesi dialettica è che essa elimina l'opposizione di tesi e antitesi, ma al tempo stesso conserva la parte di vero che è contenuta in entrambe. La dialettica in Hegel è insomma passaggio dall'astratto al concreto o, per meglio dire, passaggio da ciò che è relativamente meno concreto a ciò che è via via più concreto: ossigeno e idrogeno, per Hegel, sono astratti rispetto alla loro sintesi che è l'acqua, così come uomo e donna sono momenti astratti di quella realtà concreta che è la famiglia. L'unificazione (o conciliazione) rappresentata dalla sintesi è comunque sempre provvisoria: ogni sintesi diventa a sua volta tesi, che genera un'antitesi, da cui nasce di necessità una nuova sintesi, e così via. Il fine ultimo dello sviluppo dialettico è la piena consapevolezza di se stesso a cui lo Spirito deve pervenire e in cui consiste la sua assoluta libertà. Qui la tesi è rappresentata dall'Idea (ossia dalla possibilità astratta dello Spirito), l'antitesi dalla Natura (che non è altro che l'Idea fuori di sé, cioè l'Idea «alienata»), diventata «altro» e la sintesi dallo Spirito. Nella sua forma più alta lo Spirito vive nelle forme dell'arte, della religione e della filosofia. Queste forme hanno tutte ad oggetto l'Assoluto, ma lo esprimono in modi diversi: l'arte come intuizione, la religione come rappresentazione (per mezzo, cioè, di miti e di simboli), la filosofia come concetto.
Il passaggio dalla tesi all'antitesi e alla sintesi ha un carattere di necessità assoluta, e poiché la dialettica è legge tanto del pensiero quanto della realtà, una stessa razionalità opera in entrambi. Per Hegel è inconcepibile che nella realtà vi sia qualcosa di refrattario al pensiero o che possa esserci un pensiero che non sia realtà: il pensiero non è che il pensiero dell'Essere e l'Essere non è che l'essere del pensiero. «Tutto ciò che è reale - dice Hegel - è razionale e tutto ciò che è razionale è reale».
Applicata alla storia questa famosissima sentenza (che in tutta la mostruosa gemmazione triadica del sistema hegeliano è forse la sola su cui valga la pena di continuare a riflettere) ha un significato particolare e un po' sinistro: essa implica infatti che il caso, l'accidentale, e persino il male o la sofferenza sono tali solo apparentemente. Un evento che mortifichi l'esistenza di un individuo, di una classe o di un popolo non è che un momento della storia totale, una «negazione» dialetticamente necessaria alla realizzazione dei fini della storia. Il che vuol dire che tutto ciò che è stato doveva essere ed è bene che sia stato, e tutto ciò che è ha una ragione d'essere ed è bene che sia. La pretesa di contrapporre all'essere un dover essere (di migliorare il mondo, ad esempio) è priva di senso, giacché essere e dover essere coincidono: la storia avanza per conto suo, e quasi sicuramente non nel senso che vorremmo noi. In particolare la funzione del filosofo non è quella di porsi in atteggiamento critico nei confronti del passato o del presente, ma di comprendere la realtà di ogni tempo: la filosofia è come la nottola, l'uccello di Minerva, che esce sul far della sera, a chiarire, giustificare e concludere quel che è accaduto durante il giorno.
Il fine a cui tende la storia ha poco o nulla a che fare con i fini particolari (e contrastanti) degli uomini. Nella storia, diceva Hegel, opera una «astuzia della Ragione», in virtù della quale tutti contribuiscono senza volere all'attuazione progressiva di questo fine: la Ragione, che è l'Assoluto stesso in quanto opera dentro la storia, si serve degli interessi, delle passioni, delle chimere degli uomini per realizzare i suoi fini, non i loro. Il fine della storia è la libertà. Questa libertà, però, si realizza concretamente, secondo Hegel, nello Stato, non negli individui. L'individuo all'infuori dello Stato è un'astrazione: è lo Stato che dà un senso all'esistenza individuale e fonda la realtà del singolo. Hegel giunge alla divinizzazione esplicita dello Stato: «Lo Stato è l'ingresso di Dio nel mondo». La legge dello sviluppo, attraverso cui si realizza nella storia la libertà, e la dialettica. Tra Stati, però, dialettica significa guerra. E infatti la guerra, per Hegel, è strumento efficace di progresso, «igiene del mondo»: la vittoria spetta ai più forti, e i più forti sono sempre anche moralmente superiori ai deboli.

ASTRAZIONE

«Astrazione» è il procedimento del pensiero che, partendo da ciò che è concretamente percepito o rappresentato nella pienezza dei suoi attributi, prescinde da ciò che vi è in esso di singolare, di accidentale o inessenziale, al fine di cogliere ciò che è universale, necessario e essenziale. Per esempio, prescindendo dalle peculiari caratteristiche di un uomo, come la statura, il colore dei capelli, una particolare inclinazione psicologica, ecc. si può giungere, per astrazione, a cogliere l'essenza dell'uomo, quella che, secondo Aristotele, era definita dall'espressione «animale razionale». Ciò che si ottiene per astrazione si dice astratto e il suo contrario concreto. Hegel tuttavia impiega i due termini in senso un po' diverso: astratto è in sostanza ciò che viene concepito a prescindere dalle relazioni che lo legano ad un certo con testo (e, in ultima analisi, alla realtà nella sua totalità): per esempio, è astratta una considerazione dell'uomo come entità isolata dal contesto storico in cui vive.

SUPERAMENTO

Il verbo tedesco aufheben, che traduciamo con «superare», ha due significati fondamentali: 1) abolire, abrogare, annullare; 2) custodire, conservare. Questa duplicità di significati ha un ruolo decisivo nel discorso di Hegel, per il quale tutta la realtà si svolge per successivi superamenti. Nella triade dialettica il superamento è rappresentato dal momento della sintesi, che è appunto l'atto in cui la tesi e l'antitesi vengono al tempo stesso negate e conservate (o inverate, ossia «fatte vere», rese concrete).

FILOSOFI E FILISTEI

L'espressione "filosofia della storia" indica generalmente la riflessione sui metodi o sui contenuti della storiografia, ma può indicare anche una storia raccontata "filosoficamente", alla luce, cioè, di un'idea precostituita della realtà. In questo secondo significato l'espressione si applica principalmente a un particolare genere storiografico di cui Hegel può dirsi l'iniziatore, anche se certamente non ne fu l'unico cultore. Nell'Ottocento, anzi, questo modo di trattare la storia fu abbastanza popolare, e anche oggi il suo influsso si fa sentire in certi modi di ripensare il passato propri del senso comune e soprattutto in certe rozze ricostruzioni storiche in cui, a scopo di persuasione e di propaganda, si avventurano di tanto in tanto uomini d'affari e di potere, politici, economisti, profeti e predicatori di diverse scuole.
Complessivamente la filosofia della storia di stampo hegeliano ricorda molto da vicino le fantasiose elucubrazioni a cui si abbandonava la filosofia schellinghiana della natura. La matrice era la stessa: l'identificazione dell'Assoluto con la natura e con la storia e la considerazione dei fatti (storici o naturali) come "teofanie", ossia come manifestazioni dell'Assoluto e tappe del suo divenire. La dialettica era la legge di questo divenire, e il compito che Hegel assegnava alla filosofia della storia era appunto di ripensare lo sviluppo storico secondo le necessarie triadi dialettiche. Ad esempio, se la tesi era l'assolutismo e l'antitesi la democrazia, la sintesi di entrambi era la monarchia prussiana (di cui Hegel non dimenticava mai di essere autorevole e appagato funzionario).
L'identificazione dell'Assoluto con la storia era affetta, come quasi tutte le formulazioni hegeliane, da una certa ambiguità. Da un lato, poiché gli eventi storici sono, sì, manifestazioni dello Spirito, ma restano pur sempre fatti determinati, limitati e transitori, essa non faceva che ricondurre l'Assoluto al relativo, l'infinito al finito e Dio (approssimativa e goffa immagine dell'Assoluto) al mondo. Da un altro lato, però, quell'identificazione permetteva di "assolutizzare" la storia, nel senso che alla storia veniva attribuito il carattere necessario e indiscutibile dell'Assoluto: la storia era, sì, un processo, ma un processo dominato da una logica ferrea, privo di alternative, necessariamente diretto al meglio. Ne conseguiva che nella storia ciò che viene dopo è sempre meglio di ciò che viene prima, perché il dopo non può non contenere il prima, ma insieme è qualcosa di più e di diverso. Nella storia del pensiero, ad esempio, la filosofia più recente (che, vivo Hegel, era quella hegeliana) era anche la filosofia più vera. Come si legge nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio:

... la filosofia che è ultima nel tempo, è insieme il risultato di tutte le precedenti e deve contenere i principi di tutte: essa è perciò (beninteso, se è davvero una filosofia) la più sviluppata ricca e concreta...

L'assolutizzazione della storia si risolveva così in una incondizionata apologia del presente. Sul terreno della politica e della morale una tale filosofia sembrava fatta apposta per giustificare tutti gli ipocriti, i pusillanimi e gli opportunisti per i quali non vale mai la pena di andare contro corrente. Se l'oggi (qualunque esso sia? è per definizione meglio di ieri e il domani sarà per definizione meglio di oggi, la sola cosa ragionevole da fare è lasciar andare le cose per il verso loro.
In Germania, nel gergo studentesco del XVII e del XVIII secolo, al tipo umano del borghese ottuso e soddisfatto era riservato un epiteto, derivato dalla storia ebraica, che era piaciuto a Goethe, che lo ha introdotto nella lingua letteraria, e poi a Marx, che lo ha usato senza risparmio per bollare ogni genere di conformisti: "filisteo". Hegel rientrava in questa categoria? Certo, quando garantiva una sorta di sanatoria generale alle ingiustizie di questo mondo (e non solo a quelle passate, ma anche a quelle presenti o future), riconoscendo in esse un momento dialetticamente necessario della vita dello Spirito, Hegel assecondava l'eterna aspirazione di tutti i filistei: mettersi l'animo in pace nella contemplazione di un mondo senza rese di conti, dove chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto, e dove solo l'indignazione e la rivolta sembrano fuori posto.
Fuori posto, in ogni caso, nella filosofia della storia hegeliana, era senz'altro la filologia, ossia quel complesso sistema di tecniche che gli storici europei avevano elaborato nel corso dei secoli per arrivare a un più sicuro accertamento dei fatti. In un discorso a tesi rigidamente prefabbricate, che ai fatti attribuiva significati incongrui, fantastici, arbitrariamente desunti da un'immagine tutta soggettiva dell'assoluto, come era la filosofia della storia di Hegel e dei suoi imitatori, era possibile fare sfoggio di erudizione e di retorica, ma la critica filologica non trovava spazio per esercitarsi. Antonio Labriola, un filosofo di fine Ottocento che in gioventù era stato hegeliano, ma che odiava gli ipocriti e i chiacchieroni, aveva rotto pubblicamente con l'hegelismo proprio su questo tema: la pretesa di far quadrare mediante l'applicazione di qualche magica formuletta "dialettica" anche quei conti che nella storia non possono e non devono quadrare mai, gli pareva un'offesa, oltre che al buon senso, alla buona coscienza dell'umanità.

L'ANTIHEGELISMO DI SCHOPENHAUER...

Arthur Schopenhauer (1788-1860) seguì a Berlino le lezioni di Fichte (1811), e sin da quel momento nutrì un'avversione molto forte, non solo filosofica, nei confronti di Fichte, Schelling e soprattutto di Hegel (complessivamente li definì «i tre ciarlatani»). La riflessione di Schopenhauer parte dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé). Il mondo come è rappresentato dal nostro intelletto è semplice fenomeno, cioè qualcosa che appare in un certo modo ma la cui essenza nascosta sta al di là di esso; questo qualcosa è la «Volontà». Ognuno può scoprire in se stesso questa verità attraverso l'esperienza del proprio corpo: possiamo rappresentarci il nostro corpo come oggetto tra gli altri oggetti, ma al tempo stesso ci sentiamo vivere. Più precisamente sentiamo in noi stessi lo sforzo della volontà per realizzare un atto qualsiasi, anche il più elementare, come ad esempio uno sforzo muscolare. Secondo Schopenhauer la presenza della volontà deve essere estesa da noi a tutto quanto esiste nell'universo, alle piante, alla forza gravitazionale che attira i corpi, alla forza magnetica che fa volgere al Nord l'ago della bussola, ecc.
Questa volontà però non può essere intesa nel modo tradizionale, come ciò che dà luogo all'agire sulla base di una riflessione razionale; la volontà di Schopenhauer è istinto cieco, energia vitale, pura spinta alla propria conservazione. E inoltre non si tratta della volontà dei singoli individui o delle singole cose, ma della Volontà come principio infinito, come essenza ultima ed unica di tutta la realtà. Da questa nozione di Volontà deriva anche il tratto fondamentale della filosofia di Schopenhauer, e cioè il «pessimismo metafisico». Dire che la Volontà attraversa tutte le cose significa infatti dire che in tutte le cose domina il bisogno e il senso della mancanza, cioè la sofferenza. Tutte le cose sono cioè condannate ad una ricerca affannosa di qualcosa di sempre nuovo e diverso che però, in realtà, è solo dovuta alla tensione della Volontà per affermare se stessa.
L'unico modo per sottrarsi a questa condizione è per Schopenhauer quello di negare la stessa Volontà di vivere. Non però con il suicidio, che è solo testimonianza di un desiderio frustrato di vivere in modo diverso, ma percorrendo un itinerario (che Schopenhauer desume direttamente da dottrine ascetiche indiane) che, attraverso la compassione e l'amore, giunge a trasformare la Volontà in «Nolontà», cioè in rifiuto radicale e metafisico della Volontà di vivere.

... E QUELLO DI KIERKEGAARD

Raramente vita familiare e filosofia si sono così strettamente intrecciate come in Sören Aabye Kierkegaard. Era nato a Copenaghen il 5 maggio del 1813, ultimo di sette figli, e a Copenaghen morì nel 1855. Il padre anziano e segnato dalla morte di cinque figli giovanissimi, la madre, una domestica sposata dal padre in seconde nozze, non più giovane, un ambiente familiare «malinconico e cupo»: Sören si diceva «figlio della vecchiaia» e gli sembrava di non aver mai avuto giovinezza.
Colpito dalla penetrante intelligenza di Sören, il padre ne aveva fatto il suo principale interlocutore nelle discussioni teologiche con cui era solito intrattenersi in casa sua o di amici e che ruotavano sempre sul peccato di Adamo e sulla redenzione di Cristo, letta però, quest'ultima, solo nella vicenda del Venerdì santo e mai in quella della Domenica di resurrezione. Tormentato dal rimorso per aver un giorno «nella landa desolata dello Jutland» maledetto Dio (come egli stesso, verso la fine della vita, rivelò al figlio, che ne rimase sconvolto), il padre educò Sören ad una religiosità severa e malinconica.
La cultura che Kierkegaard respirò fin da ragazzo era impregnata di hegelismo, che filtrava già nelle conversazioni teologiche del padre e che ritrovò ventenne nei corsi di teologia che prese a frequentare. Per Kierkegaard la filosofia era senz'altro la filosofia di Hegel e la ragione non poteva che essere la Ragione hegeliana. Tutto l'itinerario filosofico-religioso di Kierkegaard si può ricondurre all'avversione per Hegel e alla progressiva presa di coscienza di quanto lo spirito di sistema, di cui Hegel era alfiere, fosse imprigionante e inautentico e di come, invece, fosse necessario cercare una «propria verità», una verità, diceva, «per la quale vivere e morire». L'uomo, secondo Kierkegaard, ritrova la propria autenticità solo riconoscendosi come singolo. Mala singolarità, un valore che Kierkegaard riteneva caratteristico del Cristianesimo, oltre che dello spirito di sistema, è negazione di quella socialità, che, come vedremo, proprio negli stessi anni Marx veniva invece indagando e affermando.
Kierkegaard viveva con sofferenza la propria interiorità. Nei conflitti interiori, diceva, l'uomo è costretto a scelte radicali e a rinunce dolorose (Aut-aut, 1843). Ci sono tre stadi di esistenza: quello estetico, quello etico, quello religioso. Don Giovanni è il simbolo della vita estetica, consumata in passioni incostanti quanto illusorie: la sua falsa gioia nasconde il vuoto di una esistenza inautentica. A questo ideale della esteriorità e della falsa libertà, si oppone l'istituzione matrimoniale, che disciplina gli impulsi di una rigida moralità: il marito è il simbolo dello stadio etico. Ma la serenità della vita familiare è messa in discussione da uno stadio ancora superiore di vita, lo stadio religioso il cui simbolo è Abramo che sacrifica il figlio Isacco contro ogni convenienza etico-sociale, in nome dell'esperienza terribile del comando di Dio.
Se lo stadio estetico rappresenta l'immediatezza, quello etico la mediazione/istituzione, e quello religioso il salto nella fede oltre ogni istituzione, Kierkegaard sapeva vivere solo il primo e l'ultimo: il tema tipicamente hegeliano della mediazione e della conciliazione gli era sempre più estraneo. Nel maggio del 1837 Kierkegaard aveva incontrato Regina Olsen, una quattordicenne di cui si era innamorato immediatamente. Tre anni più tardi si era fidanzato con lei ma dopo qualche mese l'aveva abbandonata sentendosi incapace di «essere uomo». La vicenda non si spiega tanto con la sua presunta e misteriosa malattia, di cui parlava come di un «pungolo nella carne» simile a quello di S. Paolo, quanto con l'incapacità anche psicologica di mediazione, che gli faceva avvertire la scelta etica come rinuncia alla propria singolarità, dissoluzione dell'individuale nell'universale. Si può dire che Kierkegaard non sia mai uscito dalla vicenda di Regina Olsen: nei Diari il rifiuto dell'istituzione matrimoniale appare motivato contemporaneamente con le ragioni dell'esteta che non vuole un amore definitivo e con quelle del religioso che cerca la perfezione. La contraddizione segna la vita di Kierkegaard, che restò sempre l'esteta descritto nel 1843 nel Diario di un seduttore pur compiendo la scelta definitiva del «salto nella fede».
Il «salto nella fede» escludeva però per Kierkegaard il momento «consolatorio» dell'istituzione ecclesiastica. Come aveva rinunciato al matrimonio, così rinunciò a farsi pastore. Maestro nell'ironia, Kierkegaard la rivolse innanzi tutto contro la Chiesa danese e più in generale contro la «Cristianità stabilita» che cristallizza nell'istituzione il Cristianesimo vivente, lo uccide. Il Cristianesimo si pone contro il mondo, è scandalo (Timore e tremore, 1843). Nella fede l'uomo sperimenta il dramma angoscioso della separazione da Dio, avverte la vertigine del nulla, il senso del peccato e della miserabile finitezza della condizione umana, che vive nell'istante, ma l'istante eterno le manca (Il concetto dell'angoscia, 1844). Non la Chiesa, compromessa con gli interessi mondani e con la Stato, ma la fede, può indicare la via della salvezza che consiste nell'accogliere, al di là di ogni argomentazione razionale, il messaggio paradossale del Cristo. La venuta di Cristo è intervento di Dio nella storia ed è, contro ogni ragione che vuole storia ed eternità come dimensioni incompatibili, fatto assoluto, verità universale.

Oltre alla malinconia, che si coglie a piene mani nei Diari di Kierkegaard, il padre alimentò nel figlio una singolare inclinazione fantastica. Quando il piccolo Sören gli chiedeva di uscire, lo prendeva per mano e lo portava in giro per la stanza ed entrambi si mettevano a descrivere uomini e cose, immaginando viaggi in terre lontane: un'abitudine che Kierkegaard non perse neppure da grande, quando da solo si metteva a passeggiare fantasticando per le stanze della sua abitazione, che voleva illuminatissima dalla luce delle candele.
La sofferenza con la quale Kierkegaard viveva la propria irriducibile singolarità, il senso di costituire un'eccezione, di essere incapace di realizzare una vita normale, trapelava anche nel suo aspetto esteriore. Gli abitanti di Copenaghen avevano imparato a riconoscere la sua figura: portava i calzoni uno più lungo dell'altro, un cappello a tese larghissime grandi occhiali, e soprattutto un ombrello, al quale pareva affezionatissimo al punto che lo accarezzava di continuo e se lo stringeva alla guancia.
Il giornale satirico «Il Corsaro» non faceva davvero fatica a fare di Kierkegaard il bersaglio dei propri strali. Ma questo personaggio eccentrico, che «Il Corsaro» chiamava «filosofo capitalista» perché viveva dilapidando il sostanzioso patrimonio ereditato dal padre, che amava le lunghe passeggiate in carrozza, i banchetti, i cibi raffinati ed era goloso di dolci, di fumo, di caffè, era proprio lo stesso Kierkegaard che si poneva singolo di fronte a Dio.
In quelle sue stravaganze di certo non si divertiva: le viveva probabilmente come contrappeso di una spiritualità che appare decisamente troppo forte per un uomo così debole.

L'ANTIHEGELISMO DEGLI HEGELIANI: FEUERBACH E MARX

Ancora alla metà del secolo scorso l'atteggiamento verso il Cristianesimo (e verso la religione in generale) costituiva una discriminante filosoficamente importante, un terreno di confronto e di scontro tra indirizzi diversi di pensiero. Un filosofo non poteva non schierarsi in un modo o nell'altro, e dichiararsi «contro» poteva ancora risultare pericoloso: non si finiva più al rogo, ma ci si poteva rovinare la carriera. Hegel in proposito era stato assai prudente. In gioventù si era entusiasmato, come gran parte dei suoi coetanei e amici (Schelling, per esempio), per la Rivoluzione Francese ed aveva coltivato propositi di rivolta contro la secolare oppressione politica e religiosa. Molto presto però si era conciliato con i regimi esistenti (da quello moderatamente innovatore di Napoleone a quello schiettamente reazionario della Prussia dell'età della Restaurazione) e con le religioni ufficiali: ai vecchi ideali di liberazione era subentrata una soddisfatta considerazione del presente, a cui corrispondeva un atteggiamento di convinta solidarietà con lo Stato, con il potere, con le autorità costituite e in generale con quanti nei conflitti della storia erano usciti vincitori.
Il sistema hegeliano, con la sua concezione di uno svolgimento necessario della realtà, con l'identificazione di necessità e razionalità, di razionalità e realtà, e con l'adozione di un punto di vista che sacrificava sistematicamente le ragioni del singolo (e di qualsiasi realtà particolare ed empirica) alle ragioni della Storia, dell'Assoluto, dello Spirito, dell'Idea (o come altro si chiamava), ricordava sotto molti aspetti la vecchia filosofia di Spinoza (per altro assai più elegante nella sua asciutta geometria), che obiettivamente aveva poco a che fare con le farraginose superstizioni di una qualsiasi religione positiva. Ma Hegel aveva preferito non pronunciarsi apertamente, ed anzi non aveva mancato di fare qualche ammiccamento in direzione del Cristianesimo, come quando aveva cercato di istituire un'improbabile analogia tra la Santissima Trinità e la triade dialettica.
Fu così che, alla morte di Hegel (mentre il Governo prussiano, come abbiamo visto, si affrettava a richiamare all'università di Berlino il vecchio Schelling con lo specifico incarico di restaurare fra la gioventù studiosa il prestigio della religione), allievi e seguaci si divisero sulla questione della conciliabilità del suo pensiero con la fede cristiana. Si formarono due gruppi detti, con termini tratti dal linguaggio politico-parlamentare, «destra» e «sinistra» hegeliana: la prima riuniva i partigiani della conciliabilità (o «vecchi hegeliani»), la seconda gli oppositori (o «giovani hegeliani»). Contro Schelling e la sua filosofia della religione uno di questi «giovani», giovane anche di anni (era appena ventiduenne), Friedrich Engels, il futuro amico di Marx, pubblicò anonimi nel 1842 (e cioè ad un anno dall'inizio dell'insegnamento schellingiano) due scritti fortemente polemici in nome e a difesa della più «laica» filosofia hegeliana della storia.
Era il decennio che si sarebbe concluso con le rivoluzioni del Quarantotto e il contrasto tra destra e sinistra hegeliana si spostò inevitabilmente dal terreno religioso a quello politico. Anche qui, infatti, l'hegelismo risultava ambiguo. A dispetto delle propensioni conservatrici dello stesso Hegel, la proposizione «tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale» si prestava ad un'interpretazione «rivoluzionaria»: poteva cioè significare anche che tutta l'irrazionalità e l'ingiustizia del mondo sarebbero state prima o poi spazzate via dalla Storia e che forme razionali di convivenza sarebbero alla fine prevalse tra gli uomini. In questo senso si poteva addirittura affermare che al mondo non c'era nulla di più «reale» dell'utopia.
La cosa non sarebbe piaciuta affatto ad Hegel, ma era quello che in sostanza pensavano gli esponenti della sinistra hegeliana, i quali, infatti, pur dividendosi, non mancarono, almeno in generale, di partecipare agli avvenimenti del Quarantotto militando in movimenti a carattere democratico e radicale. Gli esponenti della destra, invece, si schierarono per lo più con la reazione. La destra hegeliana conservò più a lungo la sua coesione, ma, pur occupando molte cattedre nelle facoltà di filosofia, non contò quasi nulla nella storia del pensiero. La sinistra, invece, molti dei cui esponenti dovettero rinunciare alla carriera universitaria, si dissolse abbastanza presto anche perché le migliori teste del gruppo (tra cui Feuerbach, Marx, Engels) scelsero addirittura di rompere con l'hegelismo e di denunciarne le ambiguità e le mistificazioni, ma proprio per questo è passata meritatamente alla storia.
Ludwig Feuerbach (1804-1872) aveva studiato teologia a Heidelberg prima di seguire le lezioni di Hegel a Berlino. La religione restò sempre il tema preferito della sua riflessione: a ventisei anni aveva pubblicato il suo primo scritto anticristiano, Pensieri sulla morte e l'immortalità, che gli aveva procurato non pochi guai; la sua opera più famosa, L'essenza del Cristianesimo, pubblicata nel 1841, che denunciava il carattere illusorio dei valori religiosi, gli assicurò un ruolo di leader tra i cosiddetti «giovani hegeliani». Da Hegel Feuerbach aveva imparato come tutto ciò che esiste (o è esistito) abbia (o abbia avuto) la sua ragion d'essere e pertanto non pensava di poter liquidare l'esperienza religiosa, così profondamente radicata nell'uomo, limitandosi a denunciarne le credenze come un cumulo di pregiudizi e di fantasticherie prive di senso. In ogni caso non era questo quel che gli interessava. L'importante per lui era capire l'origine del fenomeno religioso a partire dai bisogni essenziali dell'uomo.
L'uomo, diceva Feuerbach, è ragione, amore e volere, ma nella vita non riesce mai a realizzarsi compiutamente, e la frustrazione che ne deriva si esprime nell'invenzione di un essere immaginario, Dio appunto, in cui tutte le sue esigenze insoddisfatte appaiono realizzate da sempre, per definizione. Quando l'uomo attribuisce a Dio l'eternità, l'onniscienza, l'onnipotenza, ecc. non fa altro, senza rendersene conto, che proiettare i suoi propri attributi, la sua capacità di essere, di conoscere, di amare, di volere, a una scala infinita. È l'uomo che ha creato Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa. L'esperienza di libertà e di potenza che l'uomo vive inventandosi Dio è però illusoria, perché l'immagine di Dio, che egli stesso ha prodotto gli si rivolta contro come qualcosa di estraneo, come l'incarnazione stessa del principio d'autorità, fonte d'ogni sua mortificazione, soggezione, dipendenza. La divinità non è che l'immagine speculare dell'uomo, ma questa proiezione di qualità umane è in primo luogo alienazione (dal latino alienus = «estraneo») di umanità: ciò che l'uomo attribuisce a Dio lo toglie a se stesso. Per questo il problema della religione non si pone come pura e semplice confutazione di credenze più o meno assurde, ma come riappropriazione da parte dell'uomo della sua propria essenza alienata in Dio.
Feuerbach aveva assimilato fino in fondo la lezione di concretezza che si poteva trarre dalla dottrina hegeliana della storia come svolgimento dialettico, lotta, opposizione, contrasto. Era consapevole del carattere necessario, ossia razionale, della contraddizione. La stessa categoria di «alienazione» che usava per definire la religione era un retaggio hegeliano: Hegel l'aveva adoperata per indicare il processo di estraneazione dello Spirito, che si fa Natura, ma solo per superarla, ossia per appropriarsene praticamente (con il lavoro) e teoricamente (con il pensiero) e così realizzarsi compiutamente. Ma l'assunto idealistico faceva della dialettica hegeliana poco più di un gioco verbale. Alla «Ragione» hegeliana, puro nome enfaticamente assolutizzato, Feuerbach contrapponeva la ragione concreta «imbevuta del sangue dell'uomo», ossia quella ragione che ha le sue radici nella corporeità e che è fonte reale di ogni pensiero soltanto in quanto è cervello, materia, sangue. All'uomo di Hegel, mero fantoccio nelle mani della Storia, contrapponeva l'uomo fatto di «carne e sangue», che con i suoi miserabili bisogni (mangiare, bere, defecare, riprodursi), con le sue frustrazioni e la sua rabbia, esiste soltanto (ma esiste davvero!) come parte della natura e della società.
Questo capovolgimento materialistico dell'hegelismo piacque, tra gli altri, a Karl Marx (1818-1883) e al suo amico Friedrich Engels (1820-1895), una singolare coppia di studiosi e uomini d'azione (sono stati autori, tra l'altro, del Manifesto del partito comunista, redatto nel 1848 per conto di un'associazione rivoluzionaria detta Lega dei comunisti), alla cui opera dichiarano di ispirarsi tuttora e in tutto il mondo innumerevoli correnti di pensiero e organizzazioni politiche (per lo più mortalmente nemiche le une delle altre).
Da Feuerbach e dalla sinistra hegeliana, però, Marx ed Engels si separarono presto per una diversa (e molto speciale) concezione di materialismo, che faceva leva non tanto sulla nozione di materia, quanto su quella di «lavoro», di attività pratica umana, che è oggettiva e materiale proprio in quanto produttrice di cose, di beni, di oggetti, e insomma di tutto quanto è materialmente necessario alla sopravvivenza della società. Secondo il «materialismo storico» (che è uno dei nomi con cui viene indicata la dottrina di Marx e di Engels), la natura di ogni società è condizionata strettamente dai modi in cui viene organizzata la produzione e la distribuzione tra i vari gruppi della ricchezza sociale. Nella primavera del 1845 in certi suoi appunti noti come Tesi su Feuerbach (e pubblicati da Engels nel 1888), Marx scriveva:

... Il difetto fondamentale di tutto il materialismo precedente, compreso quello di Feuerbach, è che concepisce le cose, la realtà, il mondo sensibile solo sotto forma di oggetto o di intuizione, e non come attività sensibile umana, come attività pratica, non in modo soggettivo. Per questo il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in opposizione al materialismo, anche se soltanto in modo astratto, giacché l'idealismo, naturalmente, ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili, distinti davvero dagli oggetti del pensiero, ma neppure lui concepisce l'attività umana come attività oggettiva. [...] Così però non capisce l'importanza dell'azione critico-pratica, dell'azione «rivoluzionaria»...

Anche l'uomo di Feuerbach, fatto di «carne e sangue», finiva con l'essere un'immagine astratta, giacché era concepito come isolato dalla sua base materiale (ossia dalle forme della produzione). L'alienazione che Feuerbach intendeva esclusivamente come fatto di coscienza, era invece per Marx in primo luogo lavoro alienato, ossia estraneazione del produttore dai frutti del suo lavoro e dalla sua stessa attività di produttore, determinata dalla specifiche forme di sfruttamento e di oppressione messe in atto in ciascuna società. La religione, come del resto la filosofia o l'arte e in genere tutti i cosiddetti «prodotti dello spirito», non sono che riflessi «ideologici», più o meno deformati e deformanti, delle specifiche condizioni in cui in ogni società è organizzata la produzione.

... Feuerbach non vede che il sentimento religioso è esso stesso un prodotto sociale e che l'individuo astratto che egli analizza appartiene in realtà a una determinata forma di società... (VII tesi).

Nella sua analisi della religione Feuerbach coglieva insomma un fenomeno assai indicativo della condizione umana, ma scambiava l'effetto per la causa e attribuiva l'alienazione all'illusione religiosa, mentre è l'alienazione reale dell'uomo (l'asservimento alle cose che lui stesso ha prodotto, lo sfruttamento di cui è oggetto) che genera i fantasmi della religione. Ed è evidente che anche il processo di riappropriazione da parte dell'uomo della propria essenza sarà ben diverso da quello previsto da Feuerbach: non un semplice fatto di coscienza individuale, ma un'azione rivoluzionaria collettiva per la trasformazione in senso comunista della società.

... Feuerbach prende le mosse dal fenomeno dell'alienazione religiosa dello sdoppiamento del mondo in un mondo immaginario, quello della religione, e in un mondo reale. Il suo obiettivo consiste nel dissolvere il mondo della religione per ricondurlo alla sua base terrena. Ma non vede che, fatto questo, manca ancora l'essenziale. Il fatto stesso che la base terrena si separi da se stessa e si proietti nelle nuvole come un mondo autonomo non si spiega che con la sua dissociazione interna e con la contraddizione di questa base con se stessa. Perciò la prima cosa da fare è comprendere questa base terrena nella sua propria contraddizione e poi rivoluzionarla praticamente eliminando la contraddizione stessa. Così, dopo aver trovato, ad esempio, che il segreto della Sacra Famiglia sta nella famiglia terrena, è quest'ultima che deve essere criticata teoricamente e rivoluzionata nella pratica... (IV tesi)

Come afferma l'ultima delle Tesi su Feuerbach, l'XI,

... i filosofi finora non hanno fatto che interpretare il mondo in diversi modi; si tratta però di trasformarlo...

L'IDEOLOGIA E IL SUO ABBANDONO

Il termine «ideologia», oggi così diffuso, è nato sul finire del Settecento per indicare quella particolare disciplina filosofica che avrebbe dovuto studiare, secondo l'indirizzo iniziato da Locke e proseguito in Francia da diversi pensatori, tra cui Etienne Condillac (1715-1780) e Pierre-Georges Cabanis (1757-1808) la formazione delle idee a partire dalle facoltà elementari del pensiero: la sensibilità, la volontà, la memoria, il giudizio. I seguaci e i collaboratori di Cabanis furono detti appunto «ideologi» ed espressero una corrente di pensiero nettamente antimetafisica, filoscientifica e almeno tendenzialmente materialistica. Nell'età rivoluzionaria e napoleonica gli «ideologi» formavano un gruppo di intellettuali assai omogeneo che estese i suoi interessi a diversi campi, direttamente o indirettamente collegati con la politica, come l'etnologia, l'istruzione, l'economia, la statistica, ecc.
Napoleone, che li aveva in gran sospetto e che finì per sciogliere le istituzioni in cui lavoravano, come l'Istituto di Francia, fu il primo a usare il termine «ideologo» in senso dispregiativo, come sinonimo di letterato saccente e di dottrinario in malafede, un significato che poi ritornò più volte nella pubblicistica politica, in Francia e fuori. La traduzione tedesca, ideenkleid, significa alla lettera «vestito di idee» (da Kleid = «abito») ed è probabile che Marx e Engels pensassero anche al significato letterale quando, negli anni Quaranta, utilizzarono l'epiteto contro i vecchi compagni della sinistra hegeliana, i quali, scambiando le cose con le loro rappresentazioni, pretendevano di trasformare il mondo con la sola «critica delle idee» (come faceva Feuerbach con la religione) ossia coprivano o mascheravano la realtà con le idee.
«Ideologia», dunque, è in senso generale tutto ciò che nasconde o mistifica (intenzionalmente o meno) la realtà, a cominciare dalla falsa coscienza di sé che hanno gli individui, le classi sociali, i gruppi di potere (quando, per esempio, cercano di giustificare i propri comportamenti o di occultare i propri interessi, ecc.). L'alienazione religiosa denunciata da Feuerbach è senza dubbio un fenomeno ideologico; ma anche l'interpretazione che ne dà Feuerbach è ideologica, in quanto dietro all'alienazione religiosa non coglie l'alienazione reale, che ha sede nella struttura economica della società.
Il termine «ideologia» è usato correntemente nel senso generico di teoria astratta, verbosa, campata per aria, ecc. Esiste comunque anche un significato positivo del termine, quale complesso organizzato di idee o principi, specialmente in campo politico (si tratta allora di un semplice sinonimo di teoria: ad es.: l'ideologia del partito comunista).

NON PIŮ METAFISICA

L'ubriacatura metafisica rappresentata dall'idealismo tedesco e il senso di sazietà generato un po' dovunque dalle sue oscure e sterminate produzioni verbali non poteva non determinare una reazione particolarmente infastidita negli ambienti scientifici avvezzi alle polemiche, talvolta aspre, ma abituati anche allo stile di sobrietà, di concretezza, di prudenza, di parsimonioso uso delle parole che era proprio della ricerca sperimentale, nella quale, pena il discredito personale, era necessario adeguarsi alla regola della comprensibilità degli enunciati, della plausibilità delle ipotesi, della ripetibilità degli esperimenti e insomma della verificabilità delle presunte scoperte.
È più o meno in questa epoca, ossia tra gli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento, che entrò in uso la parola «scienziato» per indicare una caratteristica figura professionale, distinta da quella del «filosofo naturale», o genericamente del «filosofo». La distinzione, che oggi appare un'ovvietà, tanto che è difficile immaginare un'epoca (neppure troppo lontana) in cui non esisteva affatto, appariva limitativa per gli scienziati, e non riuscì gradita a tutti: lo scienziato era quello che, anziché costruire grandi sistemi teorici, proporre interpretazioni generali della realtà o formulare visioni complessive del mondo, studiava con pazienza, con modestia, con dedizione problemi accuratamente delimitati, circoscritti. In definitiva anche la teoria della gravitazione universale di Newton riguardava un problema che, rispetto all'inesauribile ricchezza della realtà, poteva apparire minuscolo: quello di un certo tipo di azioni tra un certo tipo di corpi; e infatti, come sappiamo, Newton apprezzava di più le sue produzioni teologiche, che spaziavano sull'universo mondo.
Senonché (e alla lunga sarebbe stata questa differenza a connotare positivamente lo scienziato nei confronti del filosofo) lo scienziato sapeva sempre, o almeno aveva il dovere di sapere, quel che si diceva: il filosofo (ossia il filosofo metafisico) no. Lo scienziato nella sua attività era legato a delle regole e a una precisa tecnica di ricerca; il filosofo no. Il sapere dello scienziato era positivamente un sapere, quello del filosofo no.
Anche il termine «positivo» risale più o meno a quest'epoca, almeno nell'accezione che qui ci interessa. Fu usato da un aristocratico di genio, il francese Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (1760-1825), che passò tutta la vita a dimostrare l'inutilità dell'aristocrazia e ad auspicare l'avvento di un'età, detta appunto «positiva», nella quale, eliminate definitivamente le classi oziose e parassitarie (nobili, militari, ecc.), il potere fosse affidato agli scienziati, ai grandi industriali e ai grandi banchieri, capaci (e qui Saint-Simon s'ingannava) d'impiegare nel modo migliore le risorse della società e di garantire a tutti quel benessere a cui tutti hanno diritto. Un allievo di Saint-Simon, assai meno geniale del maestro e soggetto a ripetute crisi di nervi, Auguste Comte (1798-1857) è considerato il fondatore del positivismo ossia di un indirizzo filosofico che, per dirla in termini molto generali, considera arbitrari (come già avevano fatto Hume e Kant) gli enunciati metafisici ed accetta quali verità solo quelle accertate dalle scienze matematiche o sperimentali. Non sempre tuttavia i filosofi positivisti, a cominciare proprio da Comte hanno saputo resistere al fascino dei grandi sistemi onnicomprensivi, e cioè, in sostanza, della «metafisica» a cui intendevano opporsi.
Da Saint-Simon Comte aveva ereditato, tra le molte cose, l'interesse per la storia, la vita politica e la società, e l'idea di un rinnovamento delle strutture sociali che si sarebbe reso possibile per merito dei progressi compiuti dalla scienza e dall'industria del suo tempo.
Comte distingueva tre epoche o «stadi» di sviluppo dell'umanità. Il primo stadio è quello «teologico», nel quale la spiegazione dei fenomeni viene ricercata nell'intervento di esseri soprannaturali e la società è retta da re dispotici e da caste sacerdotali. Il secondo stadio è quello «metafisico», nel quale la spiegazione dei fenomeni viene ricercata in principi o entità astratte (come la «materia» o l'«energia» del meccanicismo materialistico), e nel quale la società è governata in base al principio della sovranità popolare. Il terzo è lo stadio «positivo», nel quale si rinunzia alla ricerca delle cause o essenze ultime dei fenomeni e ci si limita alla descrizione più fedele possibile dei fenomeni stessi e delle loro relazioni registrate nelle leggi scientifiche. Quanto alla forma di Governo (anche qui l'idea era di Saint-Simon, ma Comte riusciva a renderla ancora più cupa), il solo dominio ammissibile nello stadio positivo era quello dei tecnici e degli scienziati.
Comte applicava la cosiddetta «legge dei tre stadi» anche allo sviluppo delle singole scienze. Allo stadio positivo le diverse discipline giungono via via, a partire da quelle il cui oggetto è più semplice (come la matematica) sino ad arrivare a quella il cui oggetto è più complesso: la sociologia (un'altra invenzione di Comte), che dovrebbe studiare «scientificamente» la società.
Gradualmente l'ammirazione per il metodo scientifico travalicò i limiti della ragionevolezza e Comte (anche in questo, però, preceduto da Saint-Simon) trasformò la cerchia dei suoi seguaci in una Chiesa con un proprio culto, che avrebbe dovuto prendere il posto delle religioni tradizionali e nel quale il Grande Essere, ossia l'Umanità, sostituiva Dio, i grandi scienziati (o comunque i personaggi resisi in qualche modo benemeriti dell'umanità) sostituivano i santi, i libri di Comte sostituivano le Sacre Scritture, e così via.