CARTESIO
Quando Newton
proclamava di non «fingere ipotesi», ossia di non ricorrere, per
spiegare la realtà, a principi o enti o forze misteriose, escogitate
senza un'adeguata base sperimentale e perciò non verificabili, non
parlava a caso. Si riferiva a Cartesio e più in generale a un indirizzo
di pensiero con il quale si era più volte scontrato: quello che va sotto
il nome di «razionalismo moderno» e che aveva i suoi massimi
esponenti, oltre che in Cartesio, in Spinoza e in Leibniz.
Si dà il
caso che questi tre studiosi, un francese, un olandese, un tedesco, così
come i loro collaboratori e seguaci, fossero tutti Europei, nati e operanti sul
continente. L'indirizzo empirico-sperimentale a cui Newton aderiva era invece
tutto inglese: aveva avuto un antesignano in Francesco Bacone e, tra i
contemporanei di Newton, poteva vantare un altro campione nell'inglese John
Locke; inglesi sarebbero poi stati gli altri due grandi filosofi empiristi del
Settecento, Berkeley e Hume. Il nazionalismo culturale faceva allora i suoi
primi passi in Europa ed ebbe un certo peso nel condizionare la vita scientifica
dell'epoca, caratterizzata da una larga circolazione delle idee e da forme nuove
di incontro e di collaborazione tra gli studiosi (le accademie scientifiche, ad
esempio), ma fortemente segnata anche da rivalità di scuola, da gelosie
personali, da polemiche spesso pretestuose, specialmente in relazione alla
priorità delle scoperte (come quella, celebre, che oppose Newton a
Leibniz a proposito del calcolo infinitesimale).
Dal punto di vista dei
metodi e dei risultati della scienza, però, l'opposizione
Inghilterra-continente non aveva alcun serio fondamento. Il più
autorevole esponente della nuova scienza Galilei, era italiano e moltissimi tra
i massimi scienziati del tempo erano continentali, a cominciare, appunto, da
Leibniz e da Cartesio (al quale, a parte fondamentali ricerche di fisica,
specialmente nel campo dell'ottica, si deve l'elaborazione della geometria
analitica, ossia del metodo per trattare algebricamente i problemi geometrici).
L'empirismo inglese, d'altra parte, non era necessariamente più
congeniale alla scienza sperimentale del razionalismo. Al contrario, in certi
suoi risultati (come l'immaterialismo di Berkeley o lo scetticismo di Hume)
poteva perfino trovarsi in difficile sintonia (se non in aperta contraddizione)
con gli assunti della scienza. In fondo l'esperienza di cui si occupava
l'empirismo inglese era quella di tutti i giorni, una sequenza di apparenze
sensibili e di fantasmi dell'immaginazione. La scienza sperimentale, invece, si
poneva esplicitamente come negazione dell'esperienza comune e partiva dal
presupposto che fosse sempre possibile scoprire dietro le apparenze la
realtà delle cose: l'esperimento come tecnica di discriminazione del vero
dal falso era l'esatto contrario della testimonianza dei sensi invocata dagli
empiristi.
C'è da aggiungere che, a dispetto delle polemiche e delle
contrapposizioni, razionalisti ed empiristi condividevano generalmente, anche se
le giustificavano in maniere diverse, concezioni e immagini che erano il succo
della nuova scienza: la distinzione tra qualità primarie e secondarie
delle cose, per esempio, a cui si collegava sia la visione meccanicistica
dell'universo, sia l'approccio quantitativo ai fenomeni della natura. Ed un
altro atteggiamento (così importante da dare alla filosofia moderna il
suo connotato più caratteristico) univa razionalisti ed empiristi:
ciascuno di loro cominciava a filosofare come se nessuno prima di loro avesse
filosofato, e cioè senza appoggiarsi all'autorità di nessuno.
Ciò non vuol dire, naturalmente, che i filosofi moderni ignorassero o
pretendessero di ignorare il pensiero dei loro predecessori. Non vuol dire
nemmeno che i filosofi moderni risuscissero davvero a liberarsi dei
condizionamenti della tradizione. Vuol dire semplicemente (ma è appunto
quello che conta) che ciascuno di loro prima di affermare alcunché,
riteneva doveroso studiare la possibilità stessa dell'affermazione,
cercava una legittimità, o una giustificazione del proprio filosofare, e
non la cercava fuori di sé, nella tradizione o nelle cose, ma dentro di
sé.
Il Discorso sul metodo di Cartesio è l'opera che ha
espresso per prima (fu pubblicata nel 1637) e con più forza questo
atteggiamento. Era una sorta di autobiografia ideale, in cui Cartesio
ricostruiva l'itinerario intellettuale che lo aveva condotto a trovare in se
stesso la sua prima certezza. Poiché non ci si può affidare
né alle verità tradizionali (la filosofia di Aristotele era un
buon esempio di un sistema di verità costruito con grandissimo rigore e
confermato per secoli da una sorta di consenso universale, ma che alla fine
aveva mostrato la debolezza dei suoi fondamenti ed era crollato miseramente)
né, tanto meno, alla testimonianza immediata dell'esperienza, Cartesio
aveva scelto il dubbio. La sua riflessione anziché cominciare con una
affermazione, cominciava con un atto di sospensione del giudizio. Poteva
sembrare un ritorno allo scetticismo antico. Ma c'era una differenza decisiva.
Negli antichi scettici il dubbio era un punto di arrivo, una scelta definitiva e
irreversibile: poiché non ci si può fidare né della
testimonianza degli altri, né della testimonianza di noi stessi, non si
deve credere a nulla. Per Cartesio, invece, il dubbio era solo un punto di
partenza, un atteggiamento provvisorio. Dubitava di tutto: di ciò che
vedeva e sentiva intorno a sé, di Dio e del mondo, di se stesso, delle
sue idee, del Bene e del Male e dell'esistenza di una norma morale; ma, mentre
si lasciava galleggiare in questa grande palude del dubbio, non rinunciava alla
speranza di posare prima o poi il piede su un po' di terra ferma. In attesa di
far chiaro in se stesso, per non compromettere nulla e per non correre rischi,
aveva deciso di continuare a vivere come se tutte le credenze tradizionali (Dio,
l'anima, il mondo) fossero vere, e come se tutte le pratiche tradizionali
(l'osservanza della fede cattolica e l'obbedienza alle leggi dello Stato)
fossero giuste. Ed ecco che, in preda al dubbio, Cartesio si era accorto di
dubitare. Era stata la sua prima certezza: si può dubitare di tutto ma
non di star dubitando. L'atto di pensiero, l'«io penso» (in latino
cogito) è una certezza incontrovertibile, di evidenza assoluta: e se
penso, aveva concluso Cartesio, allora esisto (cogito ergo sum).
Da questa
prima deduzione Cartesio s'era ingegnato a dedurre ogni altra cosa, senza troppo
soffermarsi ad accertare se il suolo su cui aveva finalmente messo piede fosse
abbastanza saldo da sopportare l'immensa costruzione che aveva in
mente:
... Considerai allora in generale che cosa è necessario
perché una proposizione sia vera e certa; perché, visto che ne
avevo trovata una che sapevo essere tale, pensai che dovevo anche sapere in che
cosa consistesse questa certezza.
E avendo notato che nel penso dunque sono
non c'è nient'altro che mi garantisca di dire la verità se non che
vedo assai chiaramente che per pensare occorre essere, ritenni di poter prendere
per regola generale che le cose che concepiamo chiarissimamente e
distintissimamente son tutte vere; c'è solo qualche difficoltà a
determinare bene quali sono quelle che concepiamo
distintamente...
Naturalmente toccava a Dio esser dedotto per primo:
l'idea di Dio, diceva Cartesio, ossia di un essere più perfetto di me
perché pensa mentre io semplicemente dubito, è nel mio pensiero
così evidente, così perfettamente chiara e distinta che non posso
essermela inventata, deve essermi stata donata da Dio stesso. E poi l'anima:
questa realtà spirituale che ho ritrovato proprio nel momento in cui ho
deciso di non credere più a nulla, che non ho potuto sopprimere neppure
col dubbio, c'è, esiste, è qualcosa di reale, è
indistruttibile, è immortale; è la sostanza (o soggetto) che pensa
(res cogitans). Infine il mondo: certo, potrebbe essere tutta un'illusione, un
sogno, un'allucinazione; ma allora dovrei pensare che quel Dio di cui ho
scoperto in me l'idea chiara e distinta sia un genio maligno, che si diverte a
ingannarmi, il che è assurdo; ergo anche il mondo
esiste.
EVIDENZA, SOGGETTO, OGGETTO
Il termine «evidenza» sta a
indicare l'immediata e completa comprensibilità, intuibilità e
perspicuità di qualche cosa: una affermazione, un'immagine, ecc. Talvolta
(come avviene per l'inglese evidence) è usato nel senso di prova,
testimonianza e simili (es.: questo argomento non costituisce alcuna evidenza
per la tua affermazione). In filosofia quest'ultimo significato trova una certa
corrispondenza nell'uso antico del termine (Epicurei e Stoici), secondo il quale
l'evidenza è la presenza diretta dell'oggetto a colui che conosce: per
gli Epicurei, ad esempio, l'evidenza è l'azione stessa che gli oggetti
materiali esercitano sugli organi di senso. In antico, dunque, l'evidenza era
collegata alla cosa che si conosce. Il significato moderno del termine,
stabilito per la prima volta da Cartesio, insiste invece sui caratteri che la
proposizione evidente ha per il soggetto, ossia l'immediata intuibilità,
la perspicuità, la chiarezza, la distinzione.
È per questo
che la filosofia cartesiana (come qualsiasi altra filosofia che ponga nel
soggetto il criterio di verità) è stata definita soggettivismo. A
proposito di soggettivismo, è bene ricordare che «soggetto»
viene dal latino subiectum che è la traduzione letterale del greco
hypokéimenon = «ciò che sta sotto» (nel senso di
ciò che resta identico a sé pur nel variare dei suoi attributi o
«accidenti»): «soggetto» è dunque affine a
«sostanza». Da Cartesio in poi per «soggetto» si intende
esclusivamente «il soggetto che pensa» e che Cartesio chiamava,
appunto, sostanza pensante (res cogitans); tutto ciò che non pensa, e che
invece può essere pensato, si dice invece «oggetto». La parola
«oggetto», che viene dal latino obiectum = «scagliato
contro», «opposto (a qualcosa)», è entrata nel linguaggio
filosofico per opera degli Scolastici che l'hanno usata però in un senso
completamente diverso dall'attuale; il suo significato etimologico, tuttavia, si
adatta bene anche all'accezione moderna in quanto lo si può intendere
come «ciò che sta di fronte» al soggetto, che gli si
oppone.
L'evidenza nei razionalisti è l'unico criterio di
verità: una proposizione è vera solo se si presenta alla coscienza
con tale forza (chiarezza e distinzione, evidenza) che è assolutamente
impossibile negarla o metterla in dubbio. La verità insomma si manifesta
da sola, come la luce in rapporto alle tenebre: è illuminazione
immediata. Il difetto di questa posizione è, per così dire,
«evidente» a sua volta (ma qui la parola viene usata nel suo
significato «debole», nel senso cioè di ciò che è
facilmente comprensibile, conforme al buon senso): una proposizione totalmente
falsa può sembrarci evidente a causa di un pregiudizio assunto
inconsapevolmente, di una passione che ci acceca, o di un altro qualsiasi
accidente dello stesso tipo, può sembrarci evidente anche e semplicemente
per la nostra stupidità.
DUALISMO CARTESIANO E PANTEISMO SPINOZISTA
Stabilita l'esistenza dell'anima e quella
del mondo esterno, Cartesio, come sappiamo, interpretava quest'ultimo alla
maniera dei meccanicisti, ossia facendo ricorso esclusivamente ai principi della
materia e del movimento; la materia, poi, era definita come pura estensione, nel
senso che Cartesio considerava reali (ossia oggettive, proprie delle cose) solo
le qualità numerabili, quantificabili e misurabili (forma, dimensioni,
ecc.). La distinzione tra res cogitans e res extensa, riproponeva tutti i
tradizionali dualismi (anima/corpo, spirito/materia, ecc.), ma con una forza
insolita, dovuta alla totale, reciproca esclusione che derivava dalla
definizione stessa delle due sostanze: tutto ciò che è esteso non
pensa, tutto ciò che pensa non è esteso.
La tradizione
attribuiva all'anima oltre alla facoltà di pensare, una serie di funzioni
corporee: era il principio della vita e del movimento e come tale presiedeva
all'attività dei diversi organi. D'altra parte l'anima stessa era
considerata una specie di materia, per quanto sottile: aria, vento, soffio,
alito, respiro, spirito. Cartesio, invece, mentre affermava nella maniera
più rigorosa l'immaterialità dell'anima, recideva ogni rapporto
tra anima e vita e, mentre riservava all'anima solo la funzione del pensiero, le
toglieva il governo del corpo; nello stesso tempo, riconoscendo il movimento
quale principio proprio della materia, faceva della vita nient'altro che una
forma un po' speciale di movimento.
Era nato di qui un groviglio di
problemi, connessi in primo luogo alla coesistenza delle due sostanze nell'uomo
(non negli animali, che Cartesio considerava semplici macchine viventi) e poi,
più in generale, al parallelismo che bisognava ipotizzare tra le
modificazioni di una sostanza e quelle dell'altra: all'idea del Sole che
tramonta (presente nella sostanza pensante) bisogna bene che corrisponda (nella
sostanza estesa) un Sole che tramonta davvero, altrimenti dovremmo ammettere che
ogni conoscenza è illusoria. Ma, posta la reciproca estraneità
delle due sostanze, in che modo si può immaginare che un atto di
volontà (che attiene alla sostanza pensante) possa determinare il
movimento di un muscolo (che attiene alla sostanza estesa)? e in che modo
dobbiamo figurarci che, per esempio, quei peculiari movimenti della sostanza
estesa che conosciamo come «mal di pancia» possano indurre incubi e
pensieri tetri nella sostanza pensante? e in che modo, infine, la sostanza
pensante viene a conoscenza delle modificazioni che interessano la sostanza
estesa (e cioè da che cosa è prodotta l'idea del Sole che tramonta
se tra questa idea e il Sole che tramonta davvero non c'è alcun possibile
rapporto diretto)?
Cartesio se la cavava ipotizzando che nell'uomo in
qualche modo le due sostanze venissero a contatto (e suggeriva quale sede
dell'incontro una piccola ghiandola del cervello, l'epifisi, detta anche
ghiandola pineale per la sua caratteristica forma a pigna); per il resto si
rimetteva alla bontà di Dio. In effetti, ammesso il dualismo cartesiano,
l'unica possibile soluzione era di rimettere ogni cosa nelle mani di Dio,
ipotizzando che sia le modificazioni della sostanza estesa (le cose) sia le
modificazioni della sostanza pensante (le idee) fossero prodotte direttamente e
immediatamente da lui. Abbandonare il dualismo cartesiano e optare per una
soluzione di tipo monistico poteva invece significare almeno tre cose diverse:
negare al pensiero il carattere di sostanza considerandolo una semplice
modificazione della materia (materialismo); negare alla materia il carattere di
sostanza dissolvendola in qualche modo nello spirito (spiritualismo); negare il
carattere di sostanza tanto al pensiero quanto all'estensione considerando
entrambi attributi di un'unica sostanza.
La prima soluzione fu sostenuta
dall'inglese Thomas Hobbes (1588-1679), che scrisse anche delle
«obiezioni» al sistema cartesiano; per Hobbes il pensiero e la
coscienza erano semplici «vibrazioni» del sistema nervoso. Nel
Settecento sarebbe stata ripresa dal francese (d'origine tedesca) Paul-Henri
Dietrich barone d'Holbach (1723-1789) nel suo Sistema della Natura, da Denis
Diderot (1713-1784) e da Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert (1717-1783) direttori
della più prestigiosa iniziativa culturale dell'Illuminismo,
l'Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et
des métiers (Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle
arti e dei mestieri, pubblicata a Parigi in 28 volumi tra il 1751 e il 1772), da
Julien Offroy de La Mettrie, che già conosciamo, e da diversi
altri.
La seconda soluzione fu proposta da Gottfried Wilhelm Leibniz
(1646-1716), secondo il quale, i componenti ultimi della materia sarebbero
rappresentati da una sorta di atomi incorporei, puntiformi (ossia inestesi),
pure forze o centri di energia, direttamente creati da Dio e indistruttibili,
che con termine greco chiamava monadi, ossia «unità». Capaci di
percezione, le monadi leibniziane erano una specie di anime e pur non avendo,
per dirla con una frase divenuta famosa nei manuali di filosofia,
«né porte né finestre», ossia pur essendo enti
assolutamente completi e autosufficienti, senza aperture verso l'esterno, in
virtù di una misteriosa armonia prestabilita garantita da Dio,
riflettevano in sé, ciascuna a suo modo e con diversi gradi di chiarezza
e distinzione, l'intero universo. Le tesi di Leibniz erano assai meno lontane di
quel che potrebbe apparire da quelle dei materialisti indicati sopra, in quanto
molti di costoro (d'Holbach e La Mettrie, per esempio) attribuivano
qualità quasi-mentali (sensibilità, simpatie e antipatie, ecc.)
alla materia. D'altra parte è utile ricordare che le monadi leibniziane
hanno offerto il modello agli atomi di forza di cui parlava Ruggero Boscovich,
straordinaria anticipazione delle moderne concezioni sui componenti ultimi della
materia.
Gottfried Wilhelm Leibniz
La terza soluzione è quella adottata da Baruch Spinoza (1632-1677) per il quale pensiero ed
estensione erano attributi di Dio, ossia, come precisava, della Natura (in
latino: Deus sive Natura). Questa identità di Dio e Natura è
ciò che tradizionalmente si indica come panteismo spinoziano.
«Panteismo» è un termine che abbiamo già incontrato
parlando del neoplatonismo dei primi secoli dell'era cristiana e del naturalismo
rinascimentale. Ma ci sono almeno due tipi di panteismo: quello che identifica i
due termini nel senso che dissolve la Natura in Dio (acosmismo, composto di a-
privativo e di cosmo: teoria che nega l'esistenza del mondo) e quello che fa
l'inverso, ossia assorbe l'idea di Dio in quella di Natura (ateismo, composto di
a- privativo e del greco theòs = «Dio»: teoria che nega
l'esistenza di Dio). Il neoplatonismo antico era una corrente panteistica del
primo tipo; lo spinozismo è un panteismo del secondo tipo, che giunge a
un rifiuto radicale delle nozioni di persona divina, creazione, trascendenza,
provvidenza e simili, su cui si basano tutte le religioni nate dall'antico ceppo
dell'Ebraismo.
Immaginare che Dio (ossia la Natura) sia dotato di
intelletto e di volontà, così come immaginare che nella Natura
(ossia in Dio) sia presente una qualche finalità era per Spinoza una
forma grossolana di antropomorfismo: l'unica causa che agisce nella
realtà è la causa efficiente, come era tra l'altro confermato,
secondo Spinoza, dai risultati della scienza sperimentale, che offrivano una
visione rigorosamente meccanicistica del mondo. Dio, per Spinoza, non è
che questo stesso mondo, con le sue ferree leggi, che non ammettono né il
caso né l'arbitrio, e in forza delle quali ogni evento e ogni esistenza
particolare risultano rigorosamente determinati. La necessità che governa
il mondo è, secondo Spinoza, la stessa che regola le dimostrazioni
matematiche: un uomo è sano e un altro è malato, uno è
biondo e l'altro è bruno per lo stesso tipo di necessità per il
quale la somma degli angoli di un triangolo è pari a 180 gradi. Il libero
arbitrio non è che un'illusione: se la volontà dell'uomo ci appare
libera, è solo perché l'intelletto non arriva mai a conoscere fino
in fondo le motivazioni vere delle azioni, delle passioni, delle inclinazioni,
dei desideri dell'uomo. A questa libertà illusoria si oppone la vera
libertà, che è propria del filosofo, e che si identifica con la
coscienza e la serena accettazione della necessità che lega fra di loro
tutte le cose.
BARUCH SPINOZA
Baruch Spinoza (1632-1677) era nato in una
famiglia ebraica di origine portoghese emigrata in Olanda, la patria della
tolleranza, per motivi religiosi. Educato nell'Ebraismo, ma in contatto con
ambienti di diversa ispirazione religiosa ed anche con atei e miscredenti,
manifestò presto fastidio per ogni tipo di conformismo, non escluso
quello della comunità a cui apparteneva e dalla quale, nel 1656, fu
pubblicamente condannato per eterodossia e messo al bando. Gli fu fatto il vuoto
intorno e anche i parenti lo abbandonarono, escludendolo dagli affari e dalle
attività della famiglia. Per guadagnarsi la vita Spinoza scelse
un'occupazione manuale che gli fruttava un reddito modestissimo, ma che gli
assicurava tutta la libertà di cui aveva bisogno: si mise a lavorare
lenti per microscopi e cannocchiali (la cui costruzione era un'attività
tradizionale in Olanda). Nel 1670 pubblicò anonimo il Tractatus
theologico-politicus, dove sosteneva tra l'altro che in una società
civile ciascuno dovrebbe avere il diritto di pensare come gli pare, e che fu
subito condannato da tutti, ebrei, cattolici e protestanti. Per non essere
indotto a compromessi con la propria coscienza e per conservare intatta la
propria libertà di pensiero rinunciò alla cattedra di filosofia
nell'università di Heidelberg che gli era stata offerta dall'Elettore del
Palatinato e che gli avrebbe assicurato finalmente l'agiatezza. La sua opera
principale, L'Ethica geometrico more demonstrata (Etica dimostrata in modo
geometrico, ossia alla maniera di Euclide negli Elementi) fu pubblicata postuma,
come quasi tutte le sue opere.
Baruch Spinoza
LOCKE
Tra il 1652 e il 1658 (quando ottenne il
titolo di Master of Arts un grado accademico equivalente alla laurea in materie
umanistiche) John Locke (1632-1704) studiò all'università di
Oxford, dove qualche anno più tardi sarebbe tornato in qualità di
docente. In quegli anni (che erano gli anni della dittatura di Cromwell,
caratterizzati da una straordinaria vivacità intellettuale e da un largo
interesse per la ricerca sperimentale) erano presenti ad Oxford alcuni
importanti esponenti della nuova scienza, tra i quali l'irlandese Robert Boyle
(1627-1691), l'autore di The sceptical Chymist (Il Chimico scettico, 1661).
Boyle, che era uno dei fondatori dell'Invisibile College, il cenacolo da cui
sarebbe nata nel 1662 la Royal Society («Società reale per il
progresso delle conoscenze naturali», ossia l'Accademia delle Scienze
inglese) si era stabilito nel 1654 a Oxford e vi aveva aperto un laboratorio,
dove impiegò come suo assistente Robert Hooke (1635-1702) destinato anche
lui a grande notorietà scientifica. L'obiettivo di Boyle era di
ricondurre anche i fenomeni chimici ai principi del meccanicismo e del
corpuscolarismo. Sebbene non si possa dire che abbia realizzato per intero il
suo programma, quello che è riuscito a fare in questo campo giustifica
ampiamente l'appellativo che gli è stato dato di fondatore della chimica
moderna. Meccanicismo e corpuscolarismo costituivano anche per Locke i
riferimenti teorici fondamentali. Da Boyle e dalla tradizione del meccanicismo
Locke ha preso la distinzione delle qualità in primarie e secondarie,
mentre il corpuscolarismo boyleiano ha un esatto corrispondente in quello che
è stato chiamato l'atomismo mentale di Locke, ossia la riduzione da lui
operata dei contenuti mentali a unità elementari (le idee semplici)
capaci di associarsi in strutture complesse tramite processi meccanici di
aggregazione. Sempre negli anni di Oxford Locke intraprese studi di medicina con
Thomas Sydenham (1624-1689), detto «l'Ippocrate inglese», una delle
massime autorità nel campo della descrizione e della classificazione
delle malattie. Senza mai conseguire un titolo accademico, Locke acquisì
una buona competenza in materia, che gli permise anche di esercitare per un
certo periodo la professione di medico.
La filosofia moderna, da
Cartesio a Kant, è stata anche (e forse soprattutto) una lunga
riflessione sulle basi, sulle possibilità e sui limiti della nostra
conoscenza. Studiando le fondamenta del sapere alcuni si sono imbattuti in
solide certezze, a cui hanno ritenuto di poter ancorare un rigido sistema di
pensiero, altri in incertezze irriducibili, che hanno imposto modi di
argomentare più prudenti e conclusioni meramente probabili. Molto alla
grossa, i primi, quelli delle certezze, erano razionalisti; i secondi, quelli
delle incertezze, erano empiristi. Nel razionalismo c'era una buona dose di
dogmatismo; nell'empirismo c'era invece una buona dose di scetticismo non
disgiunto, come vedremo, da un certo gusto del paradosso. Mentre i razionalisti
cercavano in una verità ultima e incontrovertibile la soluzione dei
grandi problemi della metafisica, gli empiristi preferivano indagare in che modo
funzionasse il nostro pensiero, nella convinzione che, chiarito questo punto,
molti di quei grandi problemi sarebbero apparsi inconsistenti o comunque si
sarebbero drasticamente ridimensionati.
Era quello che pensava, tra gli
altri, proprio John Locke. Il suo Saggio sull'intelletto umano, pubblicato nel
1690, era nato in forma di garbata e piacevole conversazione con amici
intelligenti e curiosi, come quelli che Locke si era fatto negli anni giovanili
ad Oxford, fisici, medici, chimici, avvezzi a studiare con gli strumenti del
metodo sperimentale problemi esattamente delimitati, e poco propensi invece a
lasciarsi travolgere dalle grandi e indefinite questioni della metafisica. Lo
dice lo stesso Locke nell'introduzione al Saggio:
... Dopo esserci
tormentati senza avvicinarci ad una soluzione dei dubbi che ci lasciavano
perplessi, mi balenò l'idea che stavamo seguendo una strada sbagliata. E
che prima di cimentarci in ricerche di quel genere era necessario esaminare le
nostre stesse capacità per vedere di quali oggetti le nostre menti
potessero occuparsi e di quali no. Resi noto questo pensiero alle persone
riunite, le quali si accordarono nel senso che proprio questa dovesse essere la
nostra prima ricerca...
Determinare la portata della nostra
conoscenza, secondo Locke, significava non disperdere le forze in campi che ci
sono preclusi, ed era un modo, anche, per evitare lo scetticismo che è
inevitabile conseguenza del vagare senza costrutto nel «vasto oceano
dell'Essere». Noi ci troviamo, diceva ancora Locke, nella condizione di un
marinaio che adopera lo scandaglio per sondare i fondali: lo scandaglio non
può certo servirgli a misurare la profondità del mare, ma
conoscere la lunghezza della fune gli permette, se non altro, di non finire in
secca.
Il problema fondamentale del Saggio di Locke era quello dell'origine
delle nostre idee. L'intero primo libro era dedicato a discutere la dottrina
secondo la quale il fatto che esistano idee (nozioni e norme morali) su cui
tutti concordano, dimostrerebbe il loro carattere innato; quelle idee,
cioè, sarebbero presenti nell'intelletto di ogni uomo fin dalla nascita
precedendo qualsiasi esperienza. Questa tesi, di derivazione platonica,
ricorreva in modi diversi nel pensiero dei razionalisti, e in Inghilterra era
stata ripresa (ma in un contesto più religioso che filosofico) da un
gruppo di pensatori noto come «scuola di Cambridge». Appunto contro le
argomentazioni della scuola di Cambridge era diretta la polemica di Locke: il
consenso universale, ammesso che esista, può essere spiegato in molti
modi e non richiede affatto l'ipotesi dell'innatismo; ma soprattutto,
l'esistenza di un consenso del genere è tutt'altro che provata. Era
possibile semmai, secondo Locke, dimostrare il contrario: i principi di
identità e di non contraddizione, ad esempio, che sembrano presentare in
più alto grado l'attributo dell'universalità, non hanno alcun
significato per i bambini e per gli idioti. Anche meno attendibile appariva
l'esistenza di norme universali di comportamento: molte persone mostrano di
ignorare le più elementari regole morali e moltissime sono quelle che vi
si piegano solo con difficoltà. In verità, diceva Locke, le norme
morali «sono ben lontane dall'imporsi da sé all'intelligenza delle
persone, ove queste non si diano la pena di ricercarle». Se infine
(concludeva) si osservano le abitudini dei selvaggi o comunque di popoli diversi
dagli Europei, è facile accorgersi (come innumerevoli relazioni di
viaggiatori stavano ormai a dimostrare) che molti loro comportamenti sono del
tutto in contrasto con i principi morali che si pretendono validi per tutta
l'umanità.
Le idee innate erano dunque, per Locke, un'escogitazione
priva di fondamento. L'intelletto umano alla nascita è una tabula rasa,
ossia un gran foglio bianco dove tutto è ancora da scrivere. È
l'esperienza, ossia il contatto con le cose e con gli altri uomini, che
gradualmente riempie questo foglio. Le idee non sono che i segni, o impressioni,
lasciati sul foglio dagli oggetti che percepiamo mediante l'esperienza esterna o
«sensazione», oppure dai pensieri, dai sentimenti, dai moti dell'animo
che percepiamo attraverso l'esperienza interna o «riflessione».
Sensazione e riflessione sono le uniche fonti delle nostre
conoscenze.
Locke distingueva però idee semplici e idee complesse.
Quelle che giungono al nostro intelletto attraverso la sensazione e la
riflessione sono le idee semplici, che consistono in «una sola immagine o
concezione totalmente uniforme», non suscettibile, cioè, di essere
scomposta in altre idee. Nei confronti delle idee semplici l'intelletto è
del tutto passivo, in quanto non può né formarne di nuove
né distruggere quelle che già possiede; esse si presentano alla
mente con i caratteri dell'immediatezza e dell'evidenza, ossia come idee chiare
e distinte. Le idee complesse sono invece il risultato dell'azione
dell'intelletto sulle idee semplici, che vengono ripetute, confrontate e unite
assieme in una varietà quasi infinita di combinazioni. Una tinta rosata,
un'impressione di rotondità, una sensazione di levigatezza, un certo
peso, un profumo particolare sono idee semplici, se le associamo insieme
otteniamo un'idea complessa: l'idea di mela. Otteniamo, anzi, l'idea di una
particolare mela, quella mela, per esempio, che sta sul tavolo, sotto i nostri
occhi, a portata delle nostre mani. Ma per accorgerci che la mela sta lì,
davanti ai nostri occhi, il nostro intelletto deve compiere altre operazioni:
deve associare l'idea (complessa) della mela con quella del tavolo su cui
è posata (un'altra idea complessa) e delle nostre mani che stanno per
afferrarla e portarla alla bocca perché sentiamo il desiderio di
mangiarla, ecc. Tutti questi rapporti di posizione o di causa che legano la mela
al tavolo, alle mani, alla bocca, al nostro appetito costituiscono altrettante
idee complesse.
Infine la nostra intelligenza può fare qualcosa di
più che associare idee semplici e complesse: può astrarre l'idea
di questa mela che sto per mangiare da tutte le idee che le sono connesse ora e
qui (quella sua particolare tonalità di colore, quella certa
intensità di profumo, quel suo peso preciso, ecc.; e poi questo tavolo,
le mani, la bocca, l'appetito, ecc.) e concepire l'idea di mela in generale. Le
idee generali, diceva Locke, sono quelle che emergono mediante la loro
separazione dalle circostanze di tempo e di luogo, e «da qualunque altra
idea che possa determinarle nel senso di questa o quella esistenza
particolare».
Al processo di astrazione è legata la
comunicazione, ossia il linguaggio. Le parole sono nomi che diamo alle cose.
L'esperienza ci dà soltanto cose particolari e non è possibile
trovare un nome per tutte le infinite cose particolari di cui possiamo fare
esperienza. Anche se fosse possibile non servirebbe a niente. Perché ci
sia comunicazione, infatti, bisogna che le parole corrispondano non solo alle
idee che sono nella mente di chi comunica, ma anche alle idee che sono nella
mente di chi riceve la comunicazione. Le idee generali non corrispondono a
niente di realmente esistente (l'idea di mela in generale ad esempio, non
corrisponde a nessuna delle mele particolari di cui ho fatto concretamente
esperienza), ma consentono di collezionare sotto una stessa etichetta un grande
numero di idee particolari (non solo le idee di tutte le mele di cui io ho fatto
esperienza, ma anche le idee di tutte le mele di cui ha fatto esperienza il mio
interlocutore) e in questo modo esse rendono possibile la
comunicazione.
Abbiamo detto che le idee semplici provenienti dalla
sensazione sono i segni lasciati dagli oggetti esterni sul foglio
originariamente bianco della nostra anima. Ma che le nostre idee siano
«delle veraci immagini o somiglianze di qualcosa di inerente all'oggetto
che le produce» è un'illusione. Le idee sono prodotte dalle
qualità delle cose, ma Locke distingue tra qualità primarie e
qualità secondarie. Solo le prime ineriscono effettivamente alle cose (e
sono le stesse già indicate come tali da tutti i teorici del
meccanicismo, da Galilei a Cartesio, a Boyle: la solidità, l'estensione,
la figura, il numero, il movimento); le altre (colori, suoni, sapori, ecc.) non
sono davvero presenti negli oggetti ma nascono da particolari combinazioni delle
diverse qualità primarie.
Un'idea complessa un po' particolare
(almeno per l'importanza che ha avuto nella storia del pensiero e per
l'attenzione che le ha dedicato Locke) è quella di sostanza. Nella nostra
esperienza, dice Locke, accade spesso che molte idee semplici vadano
costantemente assieme. L'abitudine a trovarle sempre collegate tra loro fa
presumere che appartengano ad una stessa cosa, la quale, per tale motivo, viene
designata con un nome solo e indicata erroneamente come un'idea semplice. Il
fatto è che non sappiamo immaginare in qual modo queste idee semplici
possano sussistere da sole, e così ci abituiamo a supporre l'esistenza di
un qualche substrato che le sorregga e che chiamiamo sostanza. Ciò non
vuol dire necessariamente che le sostanze non esistono. Ma poiché
l'esperienza non ci dà alcuna idea chiara e distinta di quel che sia
«sostanza», questo presunto substrato delle qualità delle cose
non può essere conosciuto dall'intelletto: può soltanto essere
immaginato.
L'ultimo libro del Saggio è dedicato al tentativo di
determinare conclusivamente quel valore della conoscenza che era stato
l'interrogativo iniziale di Locke. La conoscenza ha, secondo Locke, due gradi.
Il primo, che è il più chiaro e più certo è
rappresentato dalla percezione immediata, ossia dall'intuizione. Il grado
successivo è quello della dimostrazione; non è una conoscenza
chiara e luminosa come l'intuizione, ma la validità del processo con cui
si arriva a dimostrare qualcosa si basa pur sempre sul carattere intuitivo,
evidente, dei singoli passaggi. Ciò significa che la conoscenza ha sempre
ed esclusivamente a che fare con idee (e in ultima analisi con idee semplici), e
mai direttamente con le cose. Ma se la conoscenza è esclusivamente
conoscenza di idee, quali garanzie abbiamo che queste idee corrispondano alla
effettiva realtà delle cose? In altre parole: se quando conosciamo non
usciamo mai dalla nostra mente, come possiamo inferire l'esistenza di cose al di
fuori di noi?
Locke (con un evidente calo di originalità) ipotizza a
questo proposito una triplice via: alla conoscenza della nostra propria
esistenza si arriva per via di intuizione (Locke si avvale qui dell'argomento
cartesiano del cogito); a quella di Dio si arriva per via di dimostrazione
(Locke ripiglia qui il solito argomento di Dio come causa prima); a quella delle
cose per via della sensazione, nel senso che, quando riceviamo le idee semplici
ci sentiamo passivi: percepiamo cioè che esse non sono prodotte dalla
nostra mente ma dalle cose stesse, che operano su di essa dal di fuori.
Un'immagine di John Locke
DEISMO, TEISMO, ATEISMO, LIBERO PENSIERO
La scuola di Cambridge era un piccolo gruppo
di pensatori che riprendeva alcuni temi del platonismo, come l'innatismo delle
idee volgendoli a un significato prevalentemente etico-religioso. A Cambridge
insegnava anche Newton, che non mancò di utilizzare alcuni suggerimenti
della scuola nelle sue elucubrazioni teologiche, per esempio nella sua
concezione dello spazio come una sorta di «sensorio divino», ossia
come l'organo di senso attraverso il quale Dio imprimerebbe il movimento
all'universo. Contro le divisioni e gli odi che ormai da un secolo
insanguinavano la Cristianità, il gruppo di Cambridge richiamava i
seguaci di tutte le confessioni cristiane ad apprezzare quel che li univa
anziché quel che li poteva dividere.
Le interminabili controversie
teologiche, sostenevano, causa di tanti inutili massacri, riguardavano questioni
secondarie, quando non addirittura frottole e fanfaluche senza importanza. La
dottrina essenziale del Cristianesimo si poteva riassumere in pochi punti:
esiste un Dio creatore e signore del mondo, che gli uomini hanno il dovere di
riconoscere e di venerare; il miglior modo di onorare e servire Dio è di
fare il bene e di evitare il male; chi fa il bene è premiato nell'al di
là, chi fa il male è punito. Tutto qui.
Secondo i platonici
della scuola di Cambridge, principi così generali e così
«ragionevoli» erano principi «cattolici» nel vero e pieno
senso della parola (che in greco vuol dire «universale», «comune
a tutti») in quanto erano accettati da tutti, e non solo dentro, ma perfino
fuori del Cristianesimo. La «cattolicità» di questo consenso
era la prova, secondo loro, che quei principi erano innati, scritti nella nostra
anima direttamente da Dio. Locke dedicò il primo libro del suo Saggio a
confutare l'innatismo dei platonici di Cambridge, ma il tentativo di rendere
ragionevole e umano il Cristianesimo lo trovava largamente d'accordo, come
risulta, tra l'altro, dalla Epistola sulla tolleranza del 1689 e dalla
Ragionevolezza del Cristianesimo del 1695. La fede, diceva in sostanza nella
Ragionevolezza del Cristianesimo, ha contenuti che vanno al di là della
ragione, ma che devono comunque essere ragionevoli per poter essere
compresi.
La fede, aveva detto nel Saggio sull'intelletto umano è
«l'assenso dato ad una proposizione, non ottenuta mediante le deduzioni
della ragione, ma sul credito di chi la propone come proveniente da Dio»:
non può dunque avere «alcuna autorità contro i dettami chiari
ed espliciti della ragione». Locke chiamava «entusiasmo» (dal
greco éntheos = «ispirato da Dio») l'atteggiamento fanatico di
chi, prendendo i fantasmi della propria immaginazione per ispirazioni divine,
pretende di far valere le proprie opinioni non con la ragione, ma con la
coercizione.
La tendenza a ricondurre la fede cristiana entro i confini
della ragione, che si può far risalire appunto agli appelli alla
pacificazione della scuola di Cambridge e alla polemica di Locke contro
l'entusiasmo, si chiama deismo (dal latino deus). I deisti negavano con maggiore
o minore decisione il carattere personale di Dio, la rivelazione, i misteri
della fede, e combattevano la credenza nei miracoli, i culti superstiziosi, e
qualsiasi forma di fanatismo e intolleranza. Come già aveva fatto la
scuola di Cambridge, il deismo tendeva a identificare il nucleo sano della
religione con quelle poche credenze che, essendo conformi alla ragione,
incontrano il consenso di tutti e che costituiscono una sorta di «religione
naturale» contrapposta alle religioni storiche o «positive»
caratterizzate da antiche e tenaci incrostazioni superstiziose.
John Toland
(1670-1722) e Anthony Collins (1676-1729) sono i maggiori rappresentanti del
deismo. Il primo in Cristianesimo non misterioso (1696) rifiutava qualsiasi
asserzione della tradizione o della Scrittura che non trovasse conferma nella
ragione; il secondo, un allievo di Locke, nel Discorso sul libero pensiero
(1713) sosteneva la necessità di sottoporre la religione all'esame
spregiudicato della ragione. L'espressione «liberi pensatori» o
«libertini», già in uso da tempo ma con significati
sensibilmente diversi, ha preso a indicare da allora quanti respingono le
verità rivelate e l'autorità della Chiesa (di qualsiasi
Chiesa).
Con il termine teismo (dal greco theòs) si indica
l'atteggiamento di intransigente difesa della fede storica, ossia delle dottrine
tradizionalmente professate dalle diverse Chiese cristiane (a cominciare
dall'idea di rivelazione e dall'immagine di un Dio-persona).
Il teismo
è dunque il diretto avversario del deismo (e le due parole non vanno
assolutamente confuse). I teisti hanno spesso accusato di ateismo i deisti.
Anche se i deisti ammettono l'esistenza di un qualche Dio o Ente supremo, mentre
gli atei la negano assolutamente, l'accusa ha qualche fondamento, giacché
entrambi svuotano le religioni tradizionali di qualsiasi
significato.
QUALCHE TERMINE
TABULA RASA
L'espressione
latina «tabula rasa» si riferisce alla tavoletta ricoperta di cera su cui i Romani
usavano scrivere incidendovi lettere e numeri con uno stilo. Per utilizzarla una
seconda volta i segni già incisi dovevano essere cancellati spianando
nuovamente la cera e rendendola liscia (rasa). Nel linguaggio corrente
«fare tabula rasa» significa far piazza pulita di qualcosa, portare
via tutto, cancellare ogni traccia. Nel linguaggio. filosofico l'espressione
è stata usata (ad esempio da Aristotele e da Locke) per indicare la
condizione della mente prima che qualsiasi conoscenza vi sia impressa e da Locke
in poi sintetizza la negazione empiristica dell'innatismo: solo l'esperienza
può incidere dei segni (conoscenze) su quella tavola perfettamente liscia
che è la mente umana.
FANATISMO, ENTUSIASMO, LIBERTINISMO
«Fanatico» e «fanatismo»
(come del resto «profano») derivano dal latino fanum =
«tempio», il quale a sua volta è legato a fas = «diritto
sacro», «legge divina» da cui vengono «fasti»,
«fastigio», «festa», ecc. «Entusiasta» e
«entusiasmo» derivano invece dal greco enthusiàzo = «sono
ispirato», composto di en = «dentro» e theòs =
«Dio»: «che ha Dio dentro di
sé».
«Libertino» viene dal francese libertin che a
sua volta deriva dal latino libertinus = «figlio di liberto» (il
liberto è lo schiavo affrancato). L'espressione compare in un passo degli
Atti degli Apostoli (VI, 9) dove si parla di una setta ebraica di questo nome e,
male interpretandone il significato, è stata usata per indicare quei
movimenti ereticali del basso Medio Evo, i cui membri, sentendosi in comunione
con lo Spirito Santo e perciò liberi dal peccato, si ritenevano esonerati
dall'osservanza delle regole morali e in particolare da quelle concernenti
l'attività sessuale.
Tra Cinque e Seicento si è sviluppato
negli ambienti intellettuali (specialmente in quello degli storici, dei filologi
e degli eruditi) un movimento a sfondo razionalistico e irreligioso, detto
Libertinismo, che non va confuso però con le vecchie sette libertine,
anche perché il disprezzo che i libertini moderni professavano per ogni
forma di superstizione e di fanatismo non risparmiava certo le correnti
ereticali del Medio Evo.
Caratteristiche dei libertini erano
l'incredulità verso le favole della religione (che si divertivano a
smontare con gli strumenti della critica, che sapevano adoperare assai bene) e
l'insofferenza verso ogni imposizione in fatto di coscienza.
Questi
sentimenti si esprimevano (quando era possibile esprimerli) in atteggiamenti di
irrisione e di dissacrazione, che talvolta, per polemica, andavano perfino oltre
le loro vere convinzioni; per questo i libertini (che erano detti anche
«spiriti forti»), pur essendo per lo più deisti o panteisti,
erano spesso confusi con gli atei. È inutile dire che alcuni di loro
(come l'italiano Giulio Cesare Vanini, filosofo panteista, strangolato e arso
sul rogo a Tolosa nel 1619 per ordine dell'Inquisizione) finirono molto male,
andando a ingrossare la schiera delle vittime dell'intolleranza
religiosa.
BERKELEY
L'interesse che animava la ricerca
filosofica di George Berkeley (1685-1753), un anglicano irlandese che nel 1734
sarebbe diventato vescovo di Cloyne, era di carattere prevalentemente religioso.
Berkeley non era affatto portato alle dispute teologiche (che riteneva inutili,
noiose e forse pericolose per una sana vita religiosa), ma era fortemente
irritato dalle filosofie alla moda e dalle tendenze libertine, che minacciavano
di gettare discredito sul Cristianesimo e in genere sulle religioni positive,
alle quali attribuiva il grande merito di indurre gli uomini a comportamenti
regolati, civili, morali. Gli avversari da battere erano Hobbes, Spinoza,
Toland, Collins, e cioè il materialismo, il meccanicismo, il libero
pensiero e, alla fin fine, anche la scienza newtoniana. L'opera più
famosa di Berkeley, pubblicata nel 1710, faceva trapelare questa preoccupazione
già nel titolo: Trattato sui principi della conoscenza umana in cui si
investigano le principali cause di errore e di difficoltà nelle scienze,
insieme ai fondamenti dello scetticismo, dell'ateismo e
dell'irreligione.
Il giovane Berkeley (nel 1710 aveva 25 anni) era portato
alle posizioni radicali e non esitò ad attaccare la nozione stessa di
materia (la sua filosofia è detta per questo immaterialismo). Nelle sue
intenzioni la confutazione del materialismo avrebbe dovuto poggiare su basi
rigorosamente empiriche. Se ci atteniamo esclusivamente all'esperienza,
sosteneva seguendo Locke, non possiamo non renderci conto che abbiamo sempre a
che fare con delle idee, mai con delle cose. Abbiamo cioè a che fare con
le nostre percezioni delle cose, oppure con le nozioni delle cose che la nostra
fantasia o la nostra memoria si costruiscono sulla base delle percezioni: ma non
ci imbattiamo mai in oggetti esterni a noi. Che si potesse immaginare che al di
là delle sensazioni ci fosse qualcosa (una sostanza materiale) gli pareva
una stranezza.
... È un'opinione stranamente prevalente tra
gli uomini che case, montagne, fiumi e, in una parola, tutti gli oggetti
sensibili abbiano un'esistenza naturale o reale indipendente dal fatto di essere
percepiti da un intelletto. Ma [...] che cosa sono quelle cose se non ciò
che percepiamo con i nostri sensi? E che cosa possiamo percepire se non le
nostre idee o sensazioni?...
L'esistenza delle «cose»
consiste dunque nell'essere percepite (esse est percipi) e proprio nel senso che
esse non sono affatto cose (oggetti materiali), ma idee (sensazioni, percezioni,
immaginazioni). La realtà, però, si affrettava a dire Berkeley,
non è fatta solo di idee. C'è qualcosa che non è riducibile
a una pura sequenza di sensazioni o di immagini, esiste di per sé,
(è cioè sostanza), e se non ci fosse neppure le idee potrebbero
essere: lo spirito.
Oltre a tutta questa infinita varietà di
idee e oggetti di conoscenza c'è anche qualcosa che li conosce o
percepisce [...]. Questo essere percipiente e attivo è quel che io chiamo
mente, spirito, anima o me stesso. Con le quali parole non designo alcuna delle
mie idee, ma una cosa interamente distinta da esse, in cui esse esistono, o, che
è lo stesso, per mezzo di cui sono percepite.
Evidentemente
l'esistenza dello spirito non poteva essere affermata sulla base
dell'esperienza: l'empirismo radicale, che Berkeley aveva adottato per negare
l'esistenza della materia, lasciava qui il posto a una deduzione molto simile
(ancora una volta) al cogito cartesiano. È il passaggio dall'affermazione
del «me stesso» come sostanza spirituale finita a quella di Dio come
sostanza spirituale infinita sembrava a Berkeley non presentare alcuna
difficoltà; lo dava, anzi, per scontato.
Ci sono alcune
verità così vicine e ovvie alla mente che un uomo deve soltanto
aprire gli occhi per vederle. Di questo genere ritengo questa fondamentale
verità: che tutta la volta del cielo e tutto l'arredo della Terra, in
poche parole tutti i corpi che compongono il grande sistema del mondo non hanno
alcuna sussistenza fuori di una mente; che il loro essere consiste nell'esser
percepiti o conosciuti; che di conseguenza, finché non sono attualmente
percepiti da me, ossia non esistono nella mia mente o in quella di qualche altro
spirito creato [finito], debbono o non esistere affatto oppure sussistere nella
mente di uno Spirito Eterno.
Se le cose esistono solo quando e in
quanto le percepiamo, diceva in sostanza Berkeley, il tavolo su cui scrivo
cesserà di esistere appena sarò uscito dalla stanza e
tornerà improvvisamente a esistere quando vi rientrerò. Questo
continuo «saltare» degli oggetti dall'esistenza al nulla e dal nulla
all'esistenza contrasta con il più elementare buon senso. Per fortuna
c'è Dio, che, per così dire, «non esce mai dalla stanza»
in quanto ogni cosa gli è (per definizione) continuamente presente.
Così, ogni cosa può mantenersi nell'essere anche quando non
è percepita da nessuno spirito finito perché in ogni caso è
percepita da Dio.
Intorno ai vent'anni, quando ancora studiava in collegio,
Berkeley era stato come folgorato da un'intuizione, che gli era parsa insieme
nuovissima e di un'evidenza palmare: «La causa di tutte le cose naturali -
aveva scritto in un suo libro di appunti è soltanto Dio», e
intendeva che è Dio stesso che suscita di volta in volta e immediatamente
in ciascuno di noi la percezione dei fenomeni naturali. Era dunque del tutto
inutile, per Berkeley, affaticarsi a indagare i meccanismi della natura: la
natura, dopo tutto, non era che una sorta di grandioso spettacolo offerto da Dio
all'umanità. L'importante era goderselo.
Il guaio della concezione
di Berkeley è che la si poteva tranquillamente rovesciare: se è
vero che, posta l'esistenza di Dio, non è più necessario
immaginare qualcosa di materiale a fondamento delle nostre percezioni, è
altrettanto vero che, ammessa l'esistenza materiale delle cose, è Dio che
diventa inutile. Anche l'operazione tentata da Berkeley nei confronti della
sostanza materiale, ossia la sua dissoluzione in un fatto puramente mentale
sulla base di un radicale empirismo, sarebbe riuscita decisamente più
convincente se fosse stata coerentemente estesa alla sostanza spirituale, come
avrebbe poi fatto David Hume. In questo modo, il monismo spiritualistico e il
teismo estremo del brillante vescovo anglicano (il quale, per altro, sembrava
talvolta amare il paradosso ancor più del buon Dio), finivano senza
volere per portare molta acqua al mulino degli avversari: scettici, atei e
(perché no?) materialisti.
MATERIALISMO ED EMPIRISMO
Sotto il nome di materialismo vanno molte
cose diverse. C'è chi, per esempio, chiama «materialismo»
l'opinione secondo cui non c'è altra mente o spirito all'infuori del
funzionamento del nostro cervello. Questa opinione sembra perfettamente
ragionevole, ma non è quella che ci interessa qui. Qui conviene chiamare
«materialismo» l'opinione secondo cui la materia ha una esistenza
reale, indipendentemente dall'attività conoscitiva umana. Di fronte a un
baccello pieno di piselli, il materialista dirà: - Ecco un baccello pieno
di piselli! - e l'empirista dirà invece: - Ecco un baccello: non
c'è alcuna ragione di parlare di piselli finché il baccello non
sarà aperto -. Anche se è difficile confutare l'opinione del
vescovo Berkeley, secondo cui non c'è niente di niente tranne Dio che
imprime nella nostra mente l'idea dei piselli quando crediamo di aprire il
baccello, il materialismo resta preferibile all'empirismo. Quest'ultimo infatti
scoraggia decisamente la formazione di modelli delle cose non osservate, senza i
quali ben poco progresso può essere fatto nella comprensione della
natura. Si noti che qui si richiede una versione abbastanza forte del
materialismo: non basta credere nella realtà dei corpi macroscopici come
alberi, case e sedie, ma occorre ammettere anche la realtà di cose
più piccine e più difficili da osservare: gli atomi. Naturalmente
questo non significa che occorra credere senza esitare nella realtà di
qualunque ente ideato dai fisici per i loro scopi. Per esempio i fisici pensano
oggi che le particelle elementari come protoni, mesoni, ecc. siano in
realtà composte di altri oggetti ancora più elementari: i quark, i
quali però sarebbero per principio inosservabili perché confinati
per sempre entro le particelle. È come se s'intravedessero i piselli
dentro un baccello, che, però, per principio non può essere
aperto. Una tale situazione non può non lasciare
perplessi.
HUME
Lo scozzese David Hume (1711-1776) era un
uomo di buon senso, ugualmente lontano dalle speculazioni metafisiche dei grandi
costruttori di sistemi e dalle geniali e paradossali improvvisazioni del vescovo
Berkeley. La sua ambizione era di rifondare lo studio della natura umana sul
modello della scienza sperimentale, procedendo con puntuali analisi dei processi
mentali e riprendendo con sereno rigore il discorso antidogmatico di Locke dal
punto in cui Locke stesso lo aveva abbandonato per tornare alle
«certezze» di sempre: Dio, l'anima, il mondo.
L'assunto da cui
Hume prendeva le mosse era sempre l'atomismo psichico di John Locke: tutti i
contenuti mentali possono essere scomposti in unità elementari
costituite, secondo Hume, da impressioni e da idee. Le impressioni sono immagini
immediatamente presenti alla mente, chiare, evidenti, «forti»; le idee
sono copie sbiadite delle impressioni, e perciò si presentano spesso
oscure, ambigue, indistinte. Chiarire le idee significa per Hume recuperare la
concretezza delle impressioni originarie. La conoscenza consiste nelle relazioni
che si stabiliscono tra le idee; queste relazioni però non
necessariamente riproducono l'ordine originario in cui le impressioni si sono
presentate alla mente. La memoria conserva il ricordo delle immagini passate e
l'immaginazione scompone e ricompone più o meno liberamente quelle
immagini producendo le idee complesse. Il meccanismo che presiede
all'associazione delle idee è l'abitudine, che generalmente si conforma a
criteri di somiglianza o di contiguità nello spazio e nel tempo.
Le
idee astratte e generali (l'idea di cane, ad esempio), non hanno altro
fondamento che l'abitudine di attribuire a un'idea particolare (quale potrebbe
essere l'immagine del mio cane Melampo) la capacità di rappresentare
tutte le idee che le somigliano (ossia tutte le possibili immagini di cani):
sono soltanto nomi di aggregati di idee semplici, ciascuna delle quali ha il suo
fondamento di verità nell'impressione particolare e concreta di cui
è copia. Anche l'idea di sostanza non è che un nome. I filosofi
hanno chiamato infatti «sostanza» un aggregato di idee semplici
costruito per contiguità: l'impressione di una tinta rosata, di una forma
rotonda, di una superficie levigata, di un particolare profumo vanno a formare
l'idea di quella peculiare sostanza che chiamiamo «mela» perché
le rispettive idee si presentano vicine nello spazio e nel tempo. Ma anche lo
spazio e il tempo (che Newton definiva come entità assolute, o
addirittura come organi di Dio) non sono niente al di fuori delle singole,
particolari, concrete impressioni spazio-temporali.
Allo stesso modo l'idea
di causalità (sul cui fondamento alcuni filosofi, compreso lo stesso
Locke, hanno preteso di dimostrare l'esistenza di Dio, ed altri hanno costruito
la visione di un mondo rigorosamente determinato in tutti i suoi più
minuti particolari) non ha altro fondamento che l'abito psicologico di stabilire
una connessione necessaria tra impressioni che si presentano vicine nel tempo.
Se un evento di tipo A precede abitualmente nella nostra esperienza un evento di
tipo B, finiamo con il dire: A è causa di B. Nulla però ci
autorizza davvero a trasformare una successione temporale in una relazione di
causa ed effetto. Ancor meno siamo autorizzati a formulare proposizioni del
tipo: ogni evento ha la sua causa oppure a cause simili seguono effetti simili.
L'esperienza non giustifica enunciazioni universali e necessarie e la logica non
permette di saltare da ciò che è a ciò che deve essere: dal
fatto che A ha sempre preceduto B, non è legittimo dedurre che
dovrà farlo anche in futuro.
Le conclusioni rigorosamente scettiche
del pensiero di Hume non avevano alcuna enfasi drammatica; si presentavano anzi
come la negazione di ogni enfasi. Da che mondo è mondo gli uomini avevano
sempre creduto ai rapporti di causa, alla permanenza degli oggetti (o sostanze)
e alle innumerevoli altre relazioni che si possono istituire tra le idee. Tutte
queste credenze li avevano aiutati a vivere, a operare nel mondo, a farsi una
ragione delle cose in mezzo alle quali stavano. La coscienza che si trattava di
credenze e non di verità non avrebbe in alcun modo impedito che
continuassero a svolgere le stesse utili funzioni. Quella coscienza, semmai,
scoraggiando dogmatismi, entusiasmi e fanatismi di qualsiasi genere, avrebbe
potuto contribuire a rafforzare un poco nel mondo il partito della
ragionevolezza.
KANT
La vita di Immanuel Kant è stata
assai povera di avvenimenti. Nato nel 1724 e morto nel 1804 a Koenigsberg,
capitale della Prussia Orientale (oggi Kaliningrad, nell'enclave baltica
della Federazione Russa), non si allontanò mai dalla sua città,
salvo quando per qualche anno dovette guadagnarsi la vita come precettore
privato: anche in questo periodo, tuttavia, non usci dai confini della sua
provincia. Se non amava viaggiare, era però un appassionato lettore di
libri di viaggio e di descrizioni di Paesi e popoli lontani: un classico esempio
di «viaggiatore a tavolino». Oltre che un sedentario, Kant era un
abitudinario. Di costituzione non particolarmente robusta, per salvaguardare la
sua salute e mantenere la sua straordinaria capacità di lavoro seguiva
rigidissime regole di vita con una puntualità e una pignoleria diventate
leggendarie. Il che non gli impediva di essere un uomo assai piacevole, arguto,
pieno di curiosità e amante della conversazione. Le sue lezioni, poi, (a
differenza dei suoi libri, che sono piuttosto faticosi) pare che fossero per gli
studenti «il più piacevole dei trattenimenti», come ha scritto
un altro grande pensatore tedesco Johann Gottfried Herder, che era stato suo
allievo. Di modeste origini, solo nel 1770, quando ottenne un posto di
professore nell'università di Koenigsberg, Kant poté dirsi libero
da difficoltà economiche. La sua tranquilla esistenza fu turbata nel 1793
dalle minacciose reazioni suscitate negli ambienti bigotti dalla pubblicazione
di alcuni suoi saggi sulla religione. Kant fu ammonito severamente dal Governo
perché «aveva usato male del suo ingegno, mettendosi a denigrare e a
deformare parecchi dogmi capitali e fondamentali della Sacra Scrittura e del
Cristianesimo, agendo così contro i doveri di chi aveva l'incarico
ufficiale di insegnare ai giovani». Per obbedienza verso il suo sovrano (e
nel timore di perdere l'impiego) Kant si impegnò formalmente a non
trattare più argomenti attinenti alla religione.
... Rinnegare
le proprie convinzioni lasciò scritto - è cosa spregevole. In
questo caso, però, tacere è dovere di suddito. Del resto, se tutto
quel che si dice deve essere vero, non è detto che si debba dire sempre
tutta la verità...
C'è una quantità di aneddoti
sulla carattere abitudinario di Kant. Si racconta per esempio che, siccome
usciva tutti i giorni immancabilmente alla stessa ora per fare la sua
passeggiata igienica seguendo sempre lo stesso percorso gli abitanti di
Koenigsberg avevano finito col regolare i loro orologi sul momento in cui lo
vedevano passare.
Due volte soltanto - pare - rinunciò alla sua
passeggiata: la prima per leggere l'Emilio di Rousseau, uno dei testi
fondamentali dell'Illuminismo, e la seconda per ricevere notizie dalla Francia
dove era scoppiata la rivoluzione. Non si può negare che si trattasse di
eventi eccezionali, che giustificavano uno strappo alle
regole.
LA CRITICA DELLA RAGIONE
Nel mondo degli studiosi la persona di Kant
passò quasi inosservata sino alla pubblicazione, nel 1781 (quando Kant
aveva ormai cinquantasette anni), di quella che è rimasta la sua opera
più importante, la Critica della ragion pura. Molti altri anni furono poi
necessari perché la proposta filosofica di Kant fosse compresa nel suo
esatto e intiero significato.
Nella Critica della ragion pura, visto
l'esito paradossale a cui era giunto il pensiero critico con l'immaterialismo di
Berkeley e con lo scetticismo di Hume (del quale aveva una grandissima opinione:
disse che lo aveva svegliato dal sonno dogmatico), ma riprendendo la lezione
fondamentale dell'empirismo inglese, Kant proponeva in sostanza che l'indagine
filosofica fosse rivolta non tanto alla natura delle cose, quanto alla natura
della conoscenza umana, ossia ai suoi modi di funzionare, alle sue
possibilità e ai suoi limiti. In questo modo, mentre l'esperienza
dell'Illuminismo si stava concludendo travolta da meno ragionevoli modi di
pensare e di fare, Kant si confermava coerente continuatore dello spirito che
l'aveva animata: l'Illuminismo aveva voluto sottoporre ogni cosa alla critica
della ragione, Kant estendeva questa critica alla ragione stessa. Questo
fondamentale atteggiamento del pensiero kantiano è ciò che si
indica col termine «criticismo».
Anche per Kant, come per
Aristotele, conoscere vuol dire giudicare, cioè affermare o negare la
realtà di qualcosa: la sua gnoseologia cominciava appunto con una teoria
dei giudizi. Come si sa, i giudizi analitici (del tipo: «il triangolo ha
tre angoli») sono quelli in cui il predicato è compreso nel
soggetto. Sono universali e necessari, perché non possiamo negarli senza
cadere in contraddizione, ma non fanno avanzare d'un passo la nostra conoscenza
perché si limitano a rendere esplicito quel che implicitamente si sapeva
già. I giudizi sintetici (del tipo: «Socrate è seduto»)
sono quelli in cui il predicato può essere attribuito a un soggetto sulla
base soltanto dell'esperienza. Nei giudizi sintetici si esprimono delle
conoscenze nuove (il fatto di star seduto non discende necessariamente dalla
nozione di Socrate), ma si perde l'universalità e la necessità che
è propria dei giudizi analitici, tant'è vero che se neghiamo
giudizi di questo genere non cadiamo necessariamente in contraddizione (dire che
Socrate sta in piedi può essere falso, ma non è affatto
contraddittorio).
L'empirismo privilegiava il giudizio sintetico o a
posteriori; il razionalismo gli contrapponeva quello analitico o a priori. Kant
ipotizzò l'esistenza di un altro tipo di giudizio, il giudizio sintetico
a priori, che avrebbe assommato in sé i vantaggi di entrambi. A questo
tipo, secondo Kant, appartenevano le proposizioni della scienza fisica (Kant
pensava alla meccanica di Newton) e della matematica. Ad esempio l'asserzione:
«la somma degli angoli interni di un triangolo è 180 gradi»
è un giudizio che ha le caratteristiche della necessità e
dell'universalità (è a priori), ma che, al tempo stesso, non
è analitico, perché con esso veniamo a sapere qualcosa di nuovo,
che non era affatto compreso nella nozione di «triangolo». Stabilito
che i giudizi sintetici a priori esistono, restava però da dimostrare
come fossero possibili.
Secondo Kant, l'esistenza dei giudizi sintetici a
priori può essere spiegata se si ammette che la nostra conoscenza non
è un'acquisizione passiva di dati che vengono dall'esterno, ma
un'attività che unifica e dà ordine a questi dati, secondo certe
forme che sono proprie dell'io. Ogni cosa che diventa oggetto di conoscenza si
presenta in un insieme ordinato, e prima di tutto con una sua specifica
collocazione nel tempo e nello spazio: la percezione di una mela è fatta
di innumerevoli impressioni (colori, odori, sapori, ecc.) ma prima di ogni altra
cosa è la percezione di questa mela che sta qui, in questo preciso
momento, dopo esser stata raccolta e prima di esser mangiata, sopra (e non
sotto) questo tavolo, accanto a questo coltello, ecc. Percepiamo le cose nel
tempo e nello spazio non perché tempo e spazio siano realmente una sorta
di contenitori dove le cose «stanno», ma perché sono come degli
occhiali con i quali riusciamo a percepire le cose e senza i quali nessuna
percezione sarebbe per noi possibile. Spazio e tempo sono schemi o forme nei
quali inquadriamo e ordiniamo le sensazioni; e sono schemi o forme a priori
perché non provengono dall'esperienza, ma anzi sono le condizioni di
qualsiasi esperienza sensibile.
Ciò che vale per lo spazio e il
tempo, ossia per le forme della sensibilità, vale anche (e soprattutto)
per le forme dell'intelletto, che Kant chiama «categorie». Il termine
categoria era stato usato da Aristotele per indicare i predicati ultimi e
generalissimi (sostanza, qualità, quantità, relazione, ecc.) di
cui il pensiero si serve per esprimere la realtà. Senonché, per
Aristotele, le categorie dell'intelletto sono modellate sulla realtà,
ossia la realtà ha davvero le caratteristiche che questi predicati
designano: sostanze, qualità, relazioni, ecc. esistono nelle o tra le
cose indipendentemente dall'intelletto umano e prima che l'intelletto se ne
formi una nozione. Proprio questo assunto era stato smantellato dalla critica
degli empiristi inglesi. Per quanto ci si sforzi di attingere la natura delle
cose, avevano detto in sostanza Locke, Berkeley e Hume, tutto ciò che
riusciamo a conoscere sono idee, non cose: sostanze, qualità, cause sono
mere rappresentazioni, e nulla (tranne la fiducia in un Dio buono e leale) ci
induce a credere che alle nostre rappresentazioni debba corrispondere qualcosa
di effettivamente esistente al di fuori di noi.
Per Kant le categorie sono
le regole che l'intelletto usa per conferire ordine e regolarità ai dati
dell'esperienza: non è il pensiero che si adegua alla realtà, come
pensava Aristotele, ma è la realtà che, in quanto viene
conosciuta, si modella sulle categorie dell'intelletto. I pescatori per ogni
tipo di pesce adoperano reti diverse; la mente umana è come una rete le
cui maglie sono rappresentate dalle categorie: gli oggetti che vi restano
imprigionati sono quelli che si adeguano alla forma e alle dimensioni delle
maglie, mentre gli altri (se ci sono) sfuggono alla cattura. Ciò vuol
dire, tra l'altro, che il materiale suscettibile di conoscenza è
selezionato in anticipo (a priori) dal particolare equipaggiamento intellettuale
costituito dalle categorie. Kant esprimeva questa conclusione dicendo che la
conoscenza, risultato della sintesi fra la realtà che esiste
indipendentemente da noi (le «cose in sé») e le nostre
facoltà conoscitive, è conoscenza di fenomeni. I fenomeni (dal
greco phainòmenon = «ciò che appare») sono i modi in cui
le cose in sé ci si manifestano dopo essere state filtrate dalle forme a
priori della sensibilità (spazio e tempo) e dell'intelletto (categorie) E
poiché le «cose in sé» senza questi filtri non possono
essere conosciute, non si può davvero sapere, ma solo immaginare che
esistano: per questo Kant le chiama noùmeni, che in greco significa
appunto «entità soltanto pensabili» (da nòus =
«mente»). Dei fenomeni, invece, è possibile una conoscenza
certa, scientifica, perché non sono i labili fantasmi della nostra
coscienza, come suggeriva lo scetticismo di Hume, ma i concreti contenuti di
un'esperienza che si realizza secondo forme (spazio, tempo, categorie) che sono
necessariamente le stesse in ogni soggetto e perciò universalmente
valide.
Le categorie dell'intelletto sono le condizioni o forme a priori
che regolano le connessioni tra i fenomeni. Oltre ad esse, Kant ipotizzava una
forma suprema, che, condizionando l'uso delle categorie, condiziona in ultima
istanza l'intera nostra esperienza. Si tratta dell'io penso (o io puro, io
trascendentale, appercezione trascendentale, come anche era chiamato da Kant).
Cartesio aveva fatto dell'io una sostanza pensante (la res cogitans). Hume aveva
parlato invece dell'io come della semplice somma degli stati d'animo che si
susseguono dentro di noi. Kant respingeva nettamente la sostanza cartesiana, ma
distingueva altrettanto nettamente l'io di Hume, che è l'«io
empirico» (quello cioè che ci è dato dall'esperienza)
dall'«io penso», che, come soggetto a cui si riferiscono tutte le
nostre rappresentazioni, è la condizione (l'a priori) di ogni esperienza.
L'«io penso» o «io trascendentale» è il centro di
riferimento che rimanendo invariato nel variare delle rappresentazioni configura
la successione (altrimenti caotica) delle rappresentazioni stesse come
esperienza unitaria. In quanto sta a fondamento delle categorie, che sono le
forme o leggi che imponiamo alla realtà, l'«io penso» è
detto da Kant il «legislatore della natura».
Kant diceva di aver
compiuto nella filosofia una sorta di «rivoluzione copernicana»: come
Copernico aveva finalmente spiegato il movimento degli astri mettendo il Sole e
non la Terra al centro dell'universo, così lui aveva cercato di spiegare
la conoscenza ponendo al centro del fatto conoscitivo non l'oggetto conosciuto,
bensì il soggetto che conosce, l'«io penso», alle cui regole
l'oggetto si adegua. A scanso di equivoci, bisogna però tornare a
sottolineare fortemente che l'«io penso» di Kant non ha niente a che
fare con una presunta sostanza spirituale o con l'anima o con qualsiasi altra
escogitazione del genere: esso è una pura forma, ossia una semplice
funzione (= modo di funzionare) della conoscenza.
Da questo nuovo punto di
vista «copernicano» la metafisica come scienza è impossibile.
Di entità come l'anima sostanziale, il mondo (inteso come totalità
di ciò che esiste) e Dio non si dà esperienza, e senza esperienza
non c'è conoscenza. Le costruzioni della metafisica tradizionale: la
psicologia razionale (o dottrina dell'anima sostanziale, da non confondere con
la scienza psicologica che è la disciplina descrittiva e sperimentale che
si occupa dei fenomeni psichici), la cosmologia metafisica (ossia la dottrina
speculativa del mondo come totalità, anche questa da non confondere con
le scienze cosmologiche che si occupano dei fenomeni celesti dal punto di vista
delle dimensioni, della struttura e del divenire dell'universo) e infine la
teologia, apparivano fondate sulla sabbia.
Restava da spiegare per quale
ragione la metafisica fosse sorta e che cosa esattamente rappresentasse. Secondo
Kant la metafisica è radicata nella natura umana, nel senso che ne
esprime un'esigenza profonda. Oltre alla sensibilità e all'intelletto,
l'uomo possiede una facoltà cui Kant dà il nome di ragione (in
senso stretto). Come facoltà particolare la ragione opera proprio
mediante le tre idee dell'anima, del mondo e di Dio. Kant chiama Dialettica
trascendentale quella parte della Critica della Ragion pura che è
dedicata alla critica delle idee. Queste idee, secondo Kant, indicano una meta
ideale alla quale la ragione si sforza perennemente di avvicinarsi. L'idea del
mondo, ad esempio, ci spinge a conoscere un sempre maggior numero di fenomeni,
anche se sappiamo benissimo che la conoscenza di tutti i fenomeni è un
compito infinito, inesauribile. L'idea di un universo come totalità,
insomma, è un «ideale regolativo» che non potrà mai
essere raggiunto effettivamente, ma che stimola e orienta l'attività
conoscitiva. Come tale è perfettamente legittimo, ossia conforme a
ragione. C'è però anche un uso illegittimo delle idee, che
è (o almeno era al tempo di Kant) il più diffuso: quello - appunto
- della metafisica tradizionale, che non le assume come ideali, ma come oggetti
di conoscenza e si affanna a dimostrare che Dio o l'anima esistono oppure che il
mondo è finito (o infinito). Ma le dimostrazioni di questi assunti sono
illusorie, perché, pretendendo di applicare le categorie dell'intelletto
a entità meramente noumeniche, riescono soltanto a riprodurre eternamente
le stesse, insolubili antinomie (ossia, nella terminologia di Kant, quelle
argomentazioni che presentando lo stesso grado di plausibilità, giungono
a conclusioni esattamente opposte). Con ciò - come ormai dovrebbe essere
chiaro - Kant non intendeva affatto negare l'esistenza dell'anima o quella di
Dio: tentare di dimostrare che l'anima o Dio non esistono è quasi
altrettanto irragionevole quanto tentare di dimostrare che
esistono.
RAGIONE
Nella filosofia greca e medioevale con il
termine ragione è stata generalmente indicata la facoltà che
presiede al pensiero discorsivo, al pensiero cioè che trascorre da una
conoscenza all'altra senza mai arrestarsi in una certezza finale. Così,
S. Tommaso distingueva il ragionare dall'intendere: il primo, che si muove
continuamente da una conoscenza all'altra, e proprio di una creatura imperfetta
quale è l'uomo, mentre il secondo, che consiste in un possesso definitivo
e totale della verità, può appartenere soltanto ad un essere
perfetto come è Dio. Kant ha operato un cambiamento notevole nell'uso dei
termini chiamando «intelletto» ciò che la tradizione precedente
aveva chiamato ragione, ossia il pensiero discorsivo. Quanto alla ragione, Kant
la distingue sia dalla sensibilità (che apprende gli oggetti intuiti dal
senso) sia dall'intelletto (che ordina i dati offerti dalla sensibilità).
Kant distingue poi un uso teorico e un uso pratico della ragione. Nel suo uso
teorico o «puro» la ragione ci fornisce le idee più generali
sulla cui base regolare l'attività dell'intelletto; nel suo uso
«pratico» ci detta le leggi del comportamento morale, anch'esse a
priori, nel senso appunto che non sono desunte dall'esperienza ma tratte dalla
ragione stessa.
CRITICA
In antico si denominava «critica»
(dal greco kritiké tèchne = «arte del giudicare», da
krìnein = «distinguere») quella parte della logica che si
occupa dei giudizi. Più in generale «critica» significa libero
e pubblico esame (di un principio teorico, di un evento, di un comportamento,
ecc.) diretto ad esprimere un giudizio di verità (vero/falso,
possibile/impossibile, ecc.) o di valore (bello/brutto, buono/cattivo, ecc.). Il
termine quale è usato da Kant (l'esame a cui la ragione sottopone se
stessa) non è che una specificazione di questo significato. Si dice
«spirito critico» l'atteggiamento di chi non accetta nessuna
asserzione senza verificarne la fondatezza. Comunemente per critica si intende
innanzi tutto la valutazione estetica di un prodotto letterario, artistico ecc.
In un senso esclusivamente negativo e sinonimo di biasimo o
censura.
A PRIORI, A POSTERIORI
Le espressioni latine a priori = «da
ciò che viene prima») e a posteriori = «da ciò che viene
dopo») sono state usate dai filosofi medievali per indicare due forme di
conoscenza: a priori quella ottenuta col solo esercizio della pura ragione,
senza ricorrere all'esperienza; a posteriori quella che può derivare solo
dall'esperienza. La distinzione corrisponde dunque a quella tra giudizio
analitico e giudizio sintetico. Kant ha ripreso il termine a priori dandogli
però un valore nuovo (fondamentale per tutto il pensiero contemporaneo).
A priori è per Kant ciò che non può essere ricavato
dall'esperienza perché costituisce il presupposto dell'esperienza stessa.
A priori sono le forme della sensibilità (spazio e tempo) e
dell'intelletto (categorie), che sono le condizioni che rendono possibile
l'esperienza: vengono dunque prima dell'esperienza, ma solo logicamente, non
temporalmente. Anche l'a posteriori non indica più in Kant una conoscenza
che viene dopo (in senso cronologico) l'esperienza, ma il contenuto o la materia
del conoscere, quel contenuto e quella materia che vengono ordinati e plasmati
dalle forme a priori.
Nel linguaggio comune, l'espressione a priori viene
usata nel senso di non controllato, non verificabile, preconcetto (es.: non si
può dire a priori che il Governo non realizzerà il suo programma),
Sempre in senso estensivo a posteriori ha spesso il valore di «col senno di
poi», «a cose fatte» (es.: è facile dire adesso, a
posteriori, che la nostra squadra avrebbe perso).
TRASCENDENTALE
Nella terminologia kantiana (non sempre
rigorosamente rispettata, in verità, dallo stesso Kant) trascendentali
sono gli elementi (forme o condizioni) a priori della conoscenza.
«Trascendentale» si contrappone pertanto ad «empirico» (che
è il dato di esperienza, l'a posteriori) e a «trascendente»,
che, sempre nella terminologia kantiana, indica quel genere di concetti
metafisici che, come avviene nell'uso illegittimo delle idee di Dio, anima e
mondo, oltrepassano le possibilità della nostra conoscenza e pretendono
contraddittoriamente di utilizzare le forme a priori dell'esperienza (come le
categorie di sostanza, causa, ecc.) fuori dell'esperienza stessa, applicandole
alle cose in sé, ai noumeni.
THOMAS DE QUINCEY
L'inglese Thomas De Quincey (1785-1859),
autore di Confessioni di un oppiomane (1821) e di L'assassinio come opera d'arte
(1827), associava l'immaginazione di uno scrittore eccentrico e paradossale al
rigore di un erudito; le sue ricostruzioni storiche (come quella de Gli ultimi
giorni di Immanuel Kant), hanno sempre un che di irreale e di ambiguo. Dotato di
un gusto un po' decadente per quanto di bizzarro, di stravagante, di grottesco
si nasconde nella vita di tutti i giorni, De Quincey era affascinato
dall'esistenza di Kant, «notevole non tanto per i suoi avvenimenti, quanto
per la purezza e la dignità filosofica del suo tenore quotidiano».
De Quincey volle cogliere questo stile di vita nel momento del suo disfacimento,
quando l'ormai anziano filosofo cercava inutilmente di opporre una barriera di
decorose consuetudini al progressivo decadere delle sue capacità fisiche
e mentali. Lo straordinario nel modo di vivere di Kant era stato appunto
l'assoluto imperio dell'ordine, mai mescolato a banalità o grettezza, ma
piuttosto condizione per il pieno apprezzamento dei piaceri dell'intelligenza e
della socievolezza. De Quincey ricorda, tra le altre cose, l'importanza che Kant
attribuiva ai suoi ricevimenti, tradizionali occasioni di incontro e di
conversazione, e la cura che dedicava alla loro organizzazione.
[Kant] ogni
giorno invitava pochi amici a pranzare con lui, in modo che il gruppo (lui
incluso) andasse da un minimo di tre a un massimo di nove persone, e per ogni
piccola celebrazione ne comprendesse da cinque a otto. Egli era, di fatto,
puntualmente ossequiente alla regola di Lord Chesterfield - secondo cui, a un
suo pranzo, il numero dei convitati non doveva scendere al di sotto del numero
delle Grazie, né superare quello delle Muse. In tutta l'economia della
sua casa, e specialmente dei suoi pranzi, c'era qualcosa di strano, e di
amenamente opposto agli usi convenzionali della società; non
perciò, tuttavia, vi era una qualche negligenza del decoro, quale
talvolta si incontra nelle case dove non vi sono dame che sappiano imporre un
certo tono nelle maniere. La routine, che mai in alcuna circostanza variava o si
allentava, era questa: appena il pranzo era servito, Lampe, il vecchio valletto
del professore, si faceva avanti nello studio con una certa aria contegnosa, e
ne dava l'annuncio. Questo richiamo era seguito con la massima velocità -
mentre Kant continuava a parlare del tempo che faceva, argomento su cui egli
usava intrattenersi ancora durante la prima parte del pranzo. Temi più
gravi, quali gli avvenimenti politici del giorno, non venivano mai introdotti
prima del pranzo, e soprattutto non nel suo studio. Appena Kant si era seduto e
aveva spiegato il suo tovagliolo, apriva la nuova fase con una formula speciale:
«Avanti, signori!». Le parole non sono nulla; ma il tono e l'aria con
cui egli le pronunciava proclamavano in modo inconfondibile il rilassarsi dalle
fatiche del giorno e il deliberato abbandonarsi al piacere della società.
La tavola era liberalmente apparecchiata; vi era una sufficiente scelta di
piatti per venire incontro alla varietà dei gusti e le caraffe del vino
non erano poste a lato su tavolini distanti, o sotto l'odioso controllo di un
domestico ma anacreonticamente sulla tavola, e a portata di mano per ogni
convitato. Ciascuno si serviva da solo; e qualsiasi ritardo dovuto a un troppo
elaborato spirito di cerimonia era così fastidioso per Kant che egli
raramente mancava di esprimere il suo disappunto per cose del genere, seppur
senza astio [...].
Non c'era amico di Kant che non considerasse il giorno
in cui avrebbe pranzato con lui come un giorno di festa. Senza darsi un'aria di
maestro, Kant lo era realmente al più alto grado. Tutto l'intrattenimento
era insaporito dalle spezie del suo spirito illuminato, che si profondeva e
riversava con naturalezza e senza affettazione su tutti gli argomenti, via via
che il procedere del conversare gliene dava occasione, e il tempo volava via
rapidamente, dall'una alle quattro, alle cinque e anche sino a più tardi,
con profitto e piacere per tutti. Kant non tollerava le bonacce, così
infatti chiamava le pause momentanee della conversazione, quando la sua
animazione languiva. Riusciva sempre a escogitare qualche maniera per riattivare
l'interesse; e in questo era molto aiutato dal tatto con cui riusciva a trarre
fuori da ogni ospite i suoi gusti personali o il particolare indirizzo delle sue
ricerche: e su queste, qualsiasi esse fossero, egli era sempre preparato a
parlare con competenza e con l'interesse di un osservatore originale. Gli
avvenimenti locali di Königsberg dovevano essere davvero di straordinario
interesse perché egli tollerasse che usurpassero l'attenzione alla sua
tavola. E, il che può sembrare ancora più singolare, raramente, o
piuttosto mai, egli guidava la conversazione verso un qualche ramo della
filosofia che egli stesso aveva fondato. In effetti era totalmente indenne dal
difetto che hanno tanti dotti e tanti letterati: l'intolleranza per chi si sia
dedicato a ricerche che non abbiano alcuna particolare affinità con le
proprie. Nella conversazione il suo stile era familiare al più alto grado
e non scolastico, a tal punto che un qualsiasi estraneo, che avesse una qualche
conoscenza delle sue opere, ma non della sua persona, avrebbe trovato difficile
credere che in questo amabile e cordiale compagno si trovava di fronte il
profondo autore della Filosofia Trascendentale.
Non soltanto quale compagno
di conversazione Kant brillava, ma anche come ospite di grande cortesia e
generosità, il quale trovava tutto il suo piacere nel vedere i suoi
invitati, allegri e gioviali, alzarsi con spirito rasserenato dai suoi conviti
platonici, dopo aver goduto di quella loro mescolanza di piaceri intellettuali e
liberalmente sensuali. E forse soprattutto per favorire quello stato di amabile
ilarità egli si dimostrava in certo modo un artista nella composizione
dei suoi pranzi. Aveva due regole che manifestamente osservava e alle quali non
lo vidi mai mancare: la prima, che la compagnia fosse mista e disparata, il che
serviva a dare una sufficiente varietà alla conversazione: di conseguenza
i suoi invitati offrivano tutte le varietà che si potevano incontrare nel
mondo di Königsberg. Tutti i generi di vita vi erano rappresentati:
funzionari, professori, medici, ecclesiastici e mercanti illuminati. La seconda
regola era di avere una giusta quota di persone giovani, e spesso giovanissime,
scelte tra gli studenti dell'università, al fine di dare alla
conversazione un certo movimento di gaiezza e giocosità
giovanile.
Tra gli aneddoti più divertenti riportati da Thomas
De Quincey c'è sicuramente quello dello straordinario congegno inventato
da Kant per evitare l'uso delle giarrettiere, che secondo i suoi precetti
igienici (di «economia animale» dice De Quincey) giudicava poco
salutare.
... Poiché stiamo qui esponendo le nozioni che Kant
aveva sull'economia animale, sarà bene aggiungere un altro particolare,
che consiste in questo: per paura di ostruire la circolazione del sangue, non
portava mai giarrettiere; così, poiché gli riusciva difficile
tenere le calze tirate senza il loro aiuto, aveva inventato per suo uso un
qualcosa di molto elaborato per sostituirle, che vi descriverò. In un
minuscolo taschino, un po' più piccolo di un taschino da orologio, ma
disposto più o meno come un taschino di orologio, su ciascuna coscia era
collocata una piccola scatola simile all'astuccio di un orologio ma più
piccola; in questa scatola era collocata una molla da orologio a spirale e
attorno a questa spirale un elastico, e per regolarne la tensione vi era un
apposito congegno. Alle estremità dell'elastico erano attaccati dei
ganci, i quali ganci passavano attraverso una piccola apertura dei taschini, e
così, scendendo sulla parte interna e esterna delle cosce, si infilavano
in due occhielli fissati nella parte esterna e interna di ciascuna
calza...
L'AUTONOMIA DELLA MORALE
Il criticismo kantiano non riguardava solo
l'ambito della conoscenza (anche se qui ha dato i suoi frutti migliori), ma
investiva tutte le funzioni della ragione. Alla Critica della ragion pura Kant
fece seguire nel 1787 una Critica della ragion pratica (cioè delle leggi
della nostra volontà e del nostro agire morale) e nel 1790 una Critica
del giudizio (cioè del nostro modo di atteggiarci nei confronti del bello
e delle finalità che ci sembra di poter cogliere nella
Natura).
L'uomo, dice Kant nella Critica della ragion pratica, non è
né un bruto né un Dio. È piuttosto il cittadino di due
mondi: quello degli istinti e quello della ragione. Se non fosse così la
norma morale non avrebbe alcun significato: un essere puramente razionale
compirebbe infallibilmente il proprio dovere, mentre a un essere privo di
ragione non avrebbe senso chiedere di comportarsi diversamente da come si
comporta. La moralità è propria dell'uomo, perché l'uomo
può tramite comandi (o imperativi) imporre agli impulsi e alle
inclinazioni sensibili la legge della ragione.
Kant distingue però
due tipi di imperativi: ipotetici e categorici. L'imperativo ipotetico comanda
in modo condizionato (ossia subordinatamente ad una ipotesi) esigendo che, se si
vuole ottenere un certo scopo, si faccia tutto quello che è opportuno o
necessario (per esempio: «se vuoi conservarti in buona salute, non
fumare»). Si tratta insomma di un semplice consiglio tecnico, che non ha
nulla a che fare con la morale. L'imperativo morale è invece quello
categorico, che è un comando assolutamente incondizionato, che prescinde,
cioè, da qualsiasi considerazione relativa alle conseguenze, utili o
dannose, dell'azione comandata.
La morale, secondo Kant, non può che
essere «autonoma» (dal greco autòs = «se stesso» e
nòmos = legge: «che dà legge a se stesso»): l'uomo
infatti desume la norma morale dalla ragione, cioè da se stesso. Una
morale «eteronoma» (dal greco héteros = «altro»,
«diverso»), tale cioè da subordinare il comportamento dell'uomo
ad un sistema di premi e di castighi (come quella di molte religioni,
Cristianesimo incluso), non è affatto una morale. Se infatti il comando
si desumesse da qualcosa di diverso dalla ragione, non si tratterebbe di
imperativo categorico, ma di una semplice costrizione moralmente priva di
significato. Non fa alcuna differenza che questo qualcosa di diverso che ordina
e impone sia rappresentato dall'interesse egoistico, dagli istinti naturali,
dalla volontà dello Stato o dalla volontà di Dio: «Se vuoi
andare in Paradiso ama il prossimo tuo», «Se non vuoi andare in galera
paga le tasse», «Se vuoi liberarti di tua suocera, uccidila» sono
consigli tecnici (ossia imperativi ipotetici) perfettamente equivalenti dal
punto di vista morale (perché tutti ugualmente privi di valore
morale).
L'imperativo categorico non può avere alcun contenuto
determinato (non può ordinare questa o quella azione particolare)
perché non e che la pura forma universale del dovere, che Kant ha cercato
di esprimere nelle formule: «Agisci in modo che la massima del tuo volere
possa essere considerata espressione d'una legge universale»; «Agisci
in modo da considerare sia la tua sia l'altrui persona sempre anche come fine e
mai soltanto come mezzo»; «Agisci in modo che la tua volontà
possa essere considerata come istituente una legislazione universale».
Comandi come «Non uccidere», «Non rubare», «Non
desiderare la donna d'altri» non sono affatto imperativi morali,
perché, anche se in genere è effettivamente meglio non uccidere,
non rubare e non desiderare la donna d'altri, la cosa non può essere
affermata per tutte le situazioni possibili: essi mancano dunque dei caratteri
di necessità e di universalità che contraddistinguono la legge
morale.
Nella Critica della ragion pura Kant aveva affermato che
all'infuori del mondo dei fenomeni non c'è alcuna conoscenza certa. Nella
Critica della ragion pratica Kant ammetteva la possibilità di uscire,
tramite l'uso pratico della ragione, dal mondo dei fenomeni, e in questo senso
attribuiva alla ragione pratica rispetto alla ragione pura una sorta di primato.
L'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima e la libertà
dell'uomo, di cui la ragione conoscitiva non sa nulla e non può affermare
nulla, sono ugualmente delle certezze per l'uomo, in quanto postulati della sua
ragione pratica. Il termine «postulato», preso a prestito dalla
matematica, indica una proposizione che, pur non potendo essere dimostrata vera
in modo diretto, deve essere accettata per vera in quanto è presupposta
da un'altra che si ritiene incontestabile. I postulati della ragion pratica sono
dunque gli assunti considerati da Kant indispensabili per la vita morale. La
libertà dell'uomo, per esempio, è un assunto di questo genere,
perché, senza libertà non ci sono né meriti né colpe
e senza meriti e colpe non ha senso parlare di morale: se la seggiola su cui
sediamo è scomoda la colpa non è sua, ma di chi l'ha costruita,
che, appunto in quanto persona libera, avrebbe potuto costruirla
diversamente.
Come si vede fra la Critica della ragion pura e la Critica
della ragion pratica c'era un contrasto difficilmente sanabile. L'una aveva
affermato che solo il mondo fenomenico, dominato dalla necessità,
è oggetto di scienza, mentre la seconda indicava l'essenza profonda della
nostra realtà nella libertà, ossia in un'entità tipicamente
noumenica. La Critica del Giudizio tentava di attenuare questo contrasto,
ponendosi il problema di una considerazione della Natura diversa da quella
strettamente deterministica e meccanicistica della scienza, e cioè
ricercando il fondamento e la validità di giudizi, come i giudizi
estetici e i giudizi teleologici, di natura completamente diversa da quelli
studiati nella prima Critica.
Perfino nelle più semplici
manifestazioni naturali - osservava Kant è possibile cogliere un ordine e
una finalità che è difficile ricondurre alle spiegazioni di tipo
causale fornite dalla scienza: «nessuna conoscenza di tipo meccanico -
affermava può sperare di riuscire a spiegare anche soltanto un filo
d'erba». Per comprendere gli organismi viventi, insomma, sarebbe necessario
porsi anche dal punto di vista del fine in funzione del quale operano e si
sviluppano. I giudizi teleologici (télos in greco significa
«fine») considerano la Natura come se fosse stata creata da un essere
intelligente secondo un disegno (e cioè in vista di un fine). Questo tipo
di giudizio non ha un valore oggettivo (come quello che hanno le proposizioni
della scienza) ma soltanto soggettivo, in quanto è espressione
dell'esigenza del nostro spirito di ritrovare nella Natura un ordine simile a
quello che crediamo esistere nel mondo della morale.
FICHTE E L'IDEALISMO TEDESCO
Con Johann Gottlieb Fichte (1762-1814),
sedicente allievo di Kant, inizia la corrente detta dell'«idealismo
tedesco». Al centro della sua speculazione stava il concetto dell'infinita
creatività dell'Io, derivato (ma con un sensibile spostamento di
significato) dal concetto kantiano di «io penso». Per Kant il mondo
dell'esperienza esisteva in quanto il pensiero umano lo modellava secondo le sue
leggi, ma l'attività dell'io aveva un doppio limite: per un verso,
l'«io penso» era pura forma e applicava le sue categorie ad una
materia che riceveva dal di fuori; per un altro verso era limitato dalla
realtà noumenica (le cose in sé) che trascendeva il mondo
dell'esperienza e perciò non era oggetto di scienza, ma, semmai, di
credenze. Fichte (e con lui tutto l'idealismo tedesco) ha eliminato questo
duplice limite e, affermando il carattere assoluto ed infinito dell'Io (o
Spirito) e negando la possibilità stessa della cosa in sé (in
quanto nulla può essere all'infuori dell'Io), è tornato a quel
genere di speculazioni metafisiche di cui Kant aveva dimostrato l'inconsistenza
scientifica.
L'attività creatrice dell'Io, secondo Fichte, si
manifesta in tre momenti distinti. Dapprima l'Io pone se stesso, poi contrappone
a sé un ostacolo (o «Non-Io»), ma solo per poterlo superare,
come avviene nel terzo momento, che rappresenta la sintesi dei primi due.
Concluso un ciclo, il processo ricomincia da capo, ma a un livello superiore: il
punto d'arrivo del ciclo precedente è il punto di partenza di quello
successivo. Questa attività non si esaurisce mai perché l'Io
persegue un ideale di autorealizzazione assoluta che di fatto non può mai
essere raggiunto.
L'idea di una tensione infinita dell'Io verso una meta
irraggiungibile rifletteva alcuni dei più popolari temi del Romanticismo:
quello dell'eterna irrequietezza (in tedesco: Sehnsucht) contrapposta alla
classica imperturbabilità del filosofo e alla tranquillità
dell'uomo di buon senso, e quello della «nostalgia», che nascerebbe
dalla coesistenza nell'uomo del desiderio dell'infinito e della coscienza della
sua inaccessibilità. In effetti Fichte faceva parte del cosiddetto
«gruppo di Jena», uno dei primi e dei più importanti cenacoli
del movimento romantico in Germania, in cui si ritrovarono negli ultimi anni del
Settecento il filosofo Schelling, il poeta Novalis (1772-1801), lo scrittore
Ludwig Tieck (1773-1853) e soprattutto, con il ruolo di guide e animatori, i
fratelli August Wilhelm (1767-1845) e Friedrich (1772-1829) Schlegel, critici e
teorici dell'arte e della letteratura.
Questi legami aiutano forse a capire
perché una costruzione astrusa e un po' bislacca come la filosofia
fichtiana abbia potuto riscuotere uno straordinario successo e perché
Friedrich Schlegel abbia potuto affermare che la pubblicazione nel 1794 della
Dottrina della scienza di Fichte aveva rappresentato, insieme a quella del
Wilhelm Meister di Goethe nel 1796 e insieme, niente po' po' di meno, alla
Rivoluzione Francese, uno dei tre maggiori avvenimenti dell'ultimo
Settecento.
Nell'ambiente filosofico Fichte era stato tenuto a battesimo
proprio da Kant, che gli aveva fatto pubblicare un'operetta sulla religione e
sulla morale ispirata alle sue dottrine. L'amicizia di Kant gli aveva assicurato
una certa notorietà tanto che nel 1794 gli era stata affidata (su
segnalazione di Goethe) la cattedra di filosofia all'università di Jena.
Dopo la pubblicazione della Dottrina della scienza, però, Kant fu
costretto a sconfessare pubblicamente Fichte, che continuava a spacciarsi per
suo allievo e interprete. Fichte accolse garbatamente le precisazioni di Kant,
resistendo alle pressioni del giovane Schelling, che, nominato (sempre per
suggerimento di Goethe) suo coadiutore nell'insegnamento della filosofia, lo
incitava a dar battaglia senza reticenze, in nome dell'idealismo, al vecchio e
prestigioso maestro.
Friedrich Schelling aveva un orgoglio smisurato ed era
quel che si dice un caratteraccio. Con amici e nemici era duro «come il
granito» (la similitudine è della moglie, Carolina, che Schelling
aveva portato via al più anziano dei fratelli Schlegel), tant'è
vero che della sua esuberante vena polemica fecero tra i primi le spese proprio
Fichte e l'altro grande esponente dell'Idealismo tedesco, Hegel, che era stato
compagno di studi di Schelling e che Schelling nel 1801 aveva voluto con
sé a Jena, ma che si attirò il suo odio non appena mostrò
di dissentire da alcune sue tesi filosofiche.
Con Fichte il terreno su cui
maturò la rottura fu quello, all'inizio meramente speculativo, della
definizione di Natura. Fichte aveva identificato la Natura con il Non-Io.
Schelling non condivideva questa riduzione della Natura a mera negatività
e tentò un capovolgimento delle tesi fichtiane: se Fichte aveva detto che
l'Io è tutto, Schelling si propose di dimostrare che Tutto è Io (o
Spirito). Dato il temperamento dei protagonisti, il dissenso teorico
degenerò rapidamente in rivalità personale.
Interessato alle
indagini che si andavano conducendo nei settori della chimica e della biologia,
ma propenso a manipolarle a suo piacere, Schelling credeva di poter fondare su
ambigue e frammentarie indicazioni sperimentali un'immagine della Natura come
qualcosa di vivente, per la cui comprensione il ricorso alle cause finali
sarebbe stato legittimato non da un'esigenza soggettiva, come aveva sostenuto
Kant nella Critica del Giudizio, ma dalla presunta scoperta di una effettiva
struttura teleologica del mondo. In un'epoca in cui la scienza newtoniana,
materialistica e meccanicistica, era più che mai solidamente piantata nel
mondo intellettuale europeo (anche se generalmente poco amata dai romantici),
Schelling ebbe la romantica e tedesca audacia (altri tedeschi, a cominciare da
Goethe, si erano avventurati per la stessa strada) di riproporre una
«fisica speculativa» che faceva praticamente tabula rasa di due secoli
di riflessioni metodologiche. Nel suo incauto entusiasmo naturalistico Schelling
era rimasto particolarmente impressionato dai fenomeni elettrici e magnetici,
che erano allora di moda e che, secondo lui, indicavano la presenza in tutta la
Natura di una polarità positiva-negativa, nella quale riteneva di poter
individuare il principio del costante «potenziamento» della Natura
stessa verso forme sempre più alte di organizzazione. Ogni forma
naturale, diceva in sostanza Schelling, è la sintesi di forze opposte, un
momento di equilibrio tra tendenze contrarie: ma ogni equilibrio è
provvisorio, perché inevitabilmente superato dallo sforzo incessante
della Natura di trovare sempre nuovi (e superiori) equilibri.
Fra Natura e
Spirito, fra vita inconscia e vita cosciente c'era dunque, secondo Schelling, un
perfetto parallelismo: come la Natura evolve da forme indistinte verso forme
sempre più organizzate, così l'Io procede dai gradi elementari
della sensazione alla piena coscienza di se stesso. Questo parallelismo
dimostrava che alla base di entrambi c'era un unico principio, l'Assoluto, che
non era né Spirito né Natura, né soggetto né
oggetto, né ideale né reale, né inconscio né
coscienza, ma tutte queste cose insieme. L'Assoluto era insomma identità
degli opposti o indistinzione originaria del Tutto, che, secondo Schelling, solo
nell'esperienza artistica poteva essere concretamente compresa e vissuta. Mentre
i procedimenti logici rimangono infatti prigionieri delle antinomie e non sono
in grado di afferrare la realtà profonda dell'Essere, l'opera d'arte che
è frutto tanto d'ispirazione inconscia quanto di progettazione e di
esecuzione consapevoli, partecipa di quell'unità dei contrari che
è alla radice del Tutto. L'arte era dunque per Schelling «organo
universale della filosofia». Negli ultimi anni della sua vita Schelling
finì per cedere sempre più a suggestioni teologiche. Influenzato
dalla mistica di Jakob Böhme, ha immaginato l'Assoluto come Dio, e Dio come
il protagonista di una sorta di dramma cosmico: in Dio convivono Bene e Male;
per liberarsi di quel residuo di oscurità che lo condiziona ed espellere
da sé il male, Dio deve, per così dire, contrarsi. L'uomo è
sbalzato fuori dall'Assoluto, si distacca dal fondo divino, si contrappone a
Dio, cade nel finito. Con la caduta comincia il male ma, insieme, la redenzione
dell'uomo dal male. Non si tratta di una vicenda che possa essere spiegata,
dimostrata o dedotta; può essere solo raccontata ed è soprattutto
il pensiero mitologico che, con le sue immagini primordiali, riesce a coglierne
il senso.
FICHTE E SCHELLING: NOTE BIOGRAFICHE
Nato in una poverissima famiglia di
contadini, da bambino Johannes Amadeus Fichte (1762-1814) si era guadagnato da
vivere come guardiano di oche e come apprendista tessitore. Un giorno un ricco
possidente del paese lo aveva sentito ripetere a memoria il sermone pronunciato
dal pastore alla funzione domenicale e, colpito dall'ingegno di quel ragazzino,
aveva deciso di farlo studiare a sue spese. Quando il suo benefattore
morì, Fichte preferì impiegarsi come precettore privato e
affrontare la precarietà di una tale sistemazione piuttosto che
abbracciare la carriera ecclesiastica alla quale era destinato.
Le sue
difficoltà economiche ebbero termine nel 1794 quando gli venne affidato
l'insegnamento della filosofia nell'università di Jena. Dopo appena
cinque anni, però, dovette lasciare la cattedra per sospetto ateismo.
Aveva fatto circolare un articolo di un allievo dove si diceva tra l'altro che
credere in Dio non era affatto un dovere e che, semmai, era doveroso "agire come
se vi si credesse". In segno di protesta per la reprimenda che gli era stata
inflitta su pressione dei bigotti e ritenendo che i tempi fossero maturi per una
pubblica rivendicazione della libertà di pensare, diede le dimissioni
dall'insegnamento convinto che sarebbero state respinte; ma le autorità
accademiche, sollecite, come è loro consuetudine, più del quieto
vivere che della libertà, si affrettarono ad accettarle.
Cacciato da
Jena, dove il suo amico-rivale Schelling non esitò a succedergli
nell'insegnamento, per qualche anno visse tra Berlino, Köenigsberg e
Copenaghen. Alla fine, nel 1810, venne chiamato alla cattedra di filosofia della
nuova università di Berlino, che anche per merito suo divenne una delle
più prestigiose della Germania.
Friedrich Schelling
(1775-1854) ebbe una vita assai più facile di quella di Fichte. Entrato
giovanissimo nel seminario di Tubinga, strinse amicizia con due condiscepoli
d'eccezione: Friedrich Holderlin (1770-1843), uno dei maggiori poeti della sua
generazione, e Georg Wilhelm Hegel, che sarebbe diventato, con grande dispiacere
di Schelling, il più autorevole esponente della filosofia idealistica.
Nel 1798, a Weimar, Schelling ebbe modo di conoscere i massimi scrittori
tedeschi del momento, Friedrich Schiller (1759-1905) e Johann Wolfgang Goethe
(1749-1832) e proprio il favore di quest'ultimo gli permise di essere nominato,
poco più che ventenne, coadiutore di Fichte nell'insegnamento della
filosofia all'università di Jena. A Jena, da dove Fichte era stato
cacciato nel 1799, Schelling fu raggiunto da Hegel nel 1801.
Qui
pubblicò alcune delle sue opere migliori (tra cui il Sistema
dell'idealismo trascendentale, 1800) e due riviste, la "Zeitschrift fur
spekulative Physik" (Rivista di fisica speculativa), dedicata alle sue
predilette elucubrazioni parascientifiche, e più tardi, in collaborazione
con Hegel, il "Kritisches Journal der Philosophie" (Giornale critico di
Filosofia).
Dopo gli intensi ma brevi anni di Jena, Schelling (che nel 1806
era diventato membro dell'Accademia delle Scienze di Monaco) si condannò
gradualmente, soprattutto per il suo caratteraccio, all'isolamento. Ne
uscì solo da vecchio quando, morto nel frattempo Hegel, il vecchio amico
per il quale ormai nutriva un odio tanto profondo quanto ingiustificato, fu
chiamato dal re di Prussia, Federico Guglielmo IV, a insegnare
all'università di Berlino proprio con l'incarico di contrastare la
perdurante influenza del panteismo hegeliano e di restaurare lo schietto spirito
religioso del primo romanticismo.
IDEALISMO
In generale può dirsi idealistica
ogni dottrina che sottolinei la centralità della mente (o dell'anima,
dello spirito, dell'io) rispetto a ciò che non e mente. La forma
più antica di idealismo è quella di Platone; per il quale la vera
realtà e idea, mentre l'esperienza sensibile e soltanto apparenza.
L'idealismo platonico può essere chiamato idealismo oggettivo, in quanto
le idee sono considerati entità esistenti per proprio conto.
Completamente diverso è l'idealismo tedesco che riduce tutta la
realtà alla conoscenza e anzi intende l'attività conoscitiva
dell'io come principio creatore di ogni realtà. Anche la filosofia di
Berkeley era una forma di idealismo: Berkeley, infatti, aveva ridotto la
realtà alle rappresentazioni (chiamate anch'esse idee, ma in un
significato diverso da quello platonico) che il soggetto ne ha: esse est
percipi. Per Berkeley, però, il soggetto che percepisce era la coscienza
finita del singolo, nettamente distinta dalla coscienza infinita di Dio.
L'idealismo tedesco tende invece a identificare finito e infinito, Io (con la I
maiuscola) e Dio. Così, anche il concetto kantiano di «cosa in
sé» viene rifiutato dagli idealisti tedeschi e in genere ogni forma
di trascendenza viene da loro dissolta in una concezione che assimila il Mondo a
Dio la Natura allo Spirito e la Realtà alla Ragione (tutti scritti con le
iniziali maiuscole, di cui Romantici e Idealisti facevano grande
uso).
HEGEL
Georg Wilhelm Friedrich Hegel era nato a
Stoccarda nel 1770. Morì a Berlino, nella cui università occupava
la cattedra che era stata di Fichte, nel 1831. La sua famiglia, che apparteneva
alla piccola borghesia protestante, lo aveva avviato alla carriera ecclesiastica
mandandolo al seminario protestante di Tubinga. Qui Hegel aveva conosciuto
Holderlin e Schelling ed aveva condiviso con loro l'entusiasmo per gli ideali
della rivoluzione francese. Terminati gli studi, come i suoi compagni (e come
Fichte, prima di loro) aveva rinunciato a proseguire la carriera ecclesiastica e
si era impiegato come precettore privato prima a Berna e poi a Francoforte. Nel
1801 Schelling lo aveva chiamato a Jena, dove rimase fino al 1807, quando la
città fu occupata da Napoleone. Al periodo di Jena risale la prima delle
sue grandi opere, la Fenomenologia dello Spirito (1807). Dopo una breve
esperienza di giornalista, Hegel insegnò filosofia nel ginnasio di
Norimberga, di cui fu anche direttore. Chiamato nel 1816 all'università
di Heidelberg, nel 1817 pubblicò l'Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio, che era la prima esposizione sistematica del suo pensiero. Dal 181
alla morte insegnò all'università di Berlino ottenendo uno
straordinario e duraturo successo: come raramente capita ai professori di
filosofia, quella di Hegel divenne una vera e propria "scuola", che ancora oggi,
a più di un secolo e mezzo dalla morte del fondatore, trova estimatori,
cultori e perfino (camuffati magari sotto etichette diverse) impenitenti
seguaci.
L'ultima grande opera di Hegel, i Lineamenti della filosofia del
diritto fu pubblicata nel 1821, mentre nel 1827 uscì la seconda edizione
largamente rinnovata dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche. Dopo la sua
morte, e a cura dei suoi discepoli e seguaci, furono pubblicati i corsi che
aveva tenuto all'università, tra i quali, per la larga influenza
esercitata sulla cultura europea, sono particolarmente importanti quelli
dedicati alla Filosofia della storia.
Nella prefazione alla
Fenomenologia dello spirito, che è del 1807, si trova la celebre critica
di Hegel all'Assoluto schellinghiano: l'Assoluto come identità
indifferenziata di Natura e Spirito, di soggetto e oggetto, di conscio e
inconscio è come «una notte in cui tutte le vacche sono nere»:
una nozione vuota, astratta. Ad evitare questa astrattezza, sosteneva Hegel,
occorre concepire l'Assoluto come divenire, come storia. L'Assoluto non
può essere colto con una semplice intuizione, come pretendeva Schelling,
ma con un processo razionale (discorsivo) che segua la stessa legge di sviluppo
della realtà. Questa legge comune al pensiero e alla realtà
è la triade dialettica di tesi, antitesi e sintesi. Nel campo del
pensiero, ad ogni affermazione (tesi), fa seguito una negazione (antitesi), e
l'astrattezza di questa antinomia (che nella dialettica kantiana restava
irrisolta) spinge il pensiero a negare la negazione, ossia a superare
l'unilateralità e la parzialità della tesi e dell'antitesi nella
concretezza d'una «sintesi» che è unità, mediazione o
conciliazione di entrambe. Anche nella realtà la dialettica è
all'opera ovunque: ad esempio in una sostanza naturale come l'acqua, che
è sintesi di ossigeno e idrogeno, oppure in una realtà umana come
la famiglia, che rappresenta il «superamento» dell'opposizione fra
uomo e donna.
Tipico della sintesi dialettica è che essa elimina
l'opposizione di tesi e antitesi, ma al tempo stesso conserva la parte di vero
che è contenuta in entrambe. La dialettica in Hegel è insomma
passaggio dall'astratto al concreto o, per meglio dire, passaggio da ciò
che è relativamente meno concreto a ciò che è via via
più concreto: ossigeno e idrogeno, per Hegel, sono astratti rispetto alla
loro sintesi che è l'acqua, così come uomo e donna sono momenti
astratti di quella realtà concreta che è la famiglia.
L'unificazione (o conciliazione) rappresentata dalla sintesi è comunque
sempre provvisoria: ogni sintesi diventa a sua volta tesi, che genera
un'antitesi, da cui nasce di necessità una nuova sintesi, e così
via. Il fine ultimo dello sviluppo dialettico è la piena consapevolezza
di se stesso a cui lo Spirito deve pervenire e in cui consiste la sua assoluta
libertà. Qui la tesi è rappresentata dall'Idea (ossia dalla
possibilità astratta dello Spirito), l'antitesi dalla Natura (che non
è altro che l'Idea fuori di sé, cioè l'Idea
«alienata»), diventata «altro» e la sintesi dallo Spirito.
Nella sua forma più alta lo Spirito vive nelle forme dell'arte, della
religione e della filosofia. Queste forme hanno tutte ad oggetto l'Assoluto, ma
lo esprimono in modi diversi: l'arte come intuizione, la religione come
rappresentazione (per mezzo, cioè, di miti e di simboli), la filosofia
come concetto.
Il passaggio dalla tesi all'antitesi e alla sintesi ha un
carattere di necessità assoluta, e poiché la dialettica è
legge tanto del pensiero quanto della realtà, una stessa
razionalità opera in entrambi. Per Hegel è inconcepibile che nella
realtà vi sia qualcosa di refrattario al pensiero o che possa esserci un
pensiero che non sia realtà: il pensiero non è che il pensiero
dell'Essere e l'Essere non è che l'essere del pensiero. «Tutto
ciò che è reale - dice Hegel - è razionale e tutto
ciò che è razionale è reale».
Applicata alla
storia questa famosissima sentenza (che in tutta la mostruosa gemmazione
triadica del sistema hegeliano è forse la sola su cui valga la pena di
continuare a riflettere) ha un significato particolare e un po' sinistro: essa
implica infatti che il caso, l'accidentale, e persino il male o la sofferenza
sono tali solo apparentemente. Un evento che mortifichi l'esistenza di un
individuo, di una classe o di un popolo non è che un momento della storia
totale, una «negazione» dialetticamente necessaria alla realizzazione
dei fini della storia. Il che vuol dire che tutto ciò che è stato
doveva essere ed è bene che sia stato, e tutto ciò che è ha
una ragione d'essere ed è bene che sia. La pretesa di contrapporre
all'essere un dover essere (di migliorare il mondo, ad esempio) è priva
di senso, giacché essere e dover essere coincidono: la storia avanza per
conto suo, e quasi sicuramente non nel senso che vorremmo noi. In particolare la
funzione del filosofo non è quella di porsi in atteggiamento critico nei
confronti del passato o del presente, ma di comprendere la realtà di ogni
tempo: la filosofia è come la nottola, l'uccello di Minerva, che esce sul
far della sera, a chiarire, giustificare e concludere quel che è accaduto
durante il giorno.
Il fine a cui tende la storia ha poco o nulla a che fare
con i fini particolari (e contrastanti) degli uomini. Nella storia, diceva
Hegel, opera una «astuzia della Ragione», in virtù della quale
tutti contribuiscono senza volere all'attuazione progressiva di questo fine: la
Ragione, che è l'Assoluto stesso in quanto opera dentro la storia, si
serve degli interessi, delle passioni, delle chimere degli uomini per realizzare
i suoi fini, non i loro. Il fine della storia è la libertà. Questa
libertà, però, si realizza concretamente, secondo Hegel, nello
Stato, non negli individui. L'individuo all'infuori dello Stato è
un'astrazione: è lo Stato che dà un senso all'esistenza
individuale e fonda la realtà del singolo. Hegel giunge alla
divinizzazione esplicita dello Stato: «Lo Stato è l'ingresso di Dio
nel mondo». La legge dello sviluppo, attraverso cui si realizza nella
storia la libertà, e la dialettica. Tra Stati, però, dialettica
significa guerra. E infatti la guerra, per Hegel, è strumento efficace di
progresso, «igiene del mondo»: la vittoria spetta ai più forti,
e i più forti sono sempre anche moralmente superiori ai
deboli.
ASTRAZIONE
«Astrazione» è il
procedimento del pensiero che, partendo da ciò che è concretamente
percepito o rappresentato nella pienezza dei suoi attributi, prescinde da
ciò che vi è in esso di singolare, di accidentale o inessenziale,
al fine di cogliere ciò che è universale, necessario e essenziale.
Per esempio, prescindendo dalle peculiari caratteristiche di un uomo, come la
statura, il colore dei capelli, una particolare inclinazione psicologica, ecc.
si può giungere, per astrazione, a cogliere l'essenza dell'uomo, quella
che, secondo Aristotele, era definita dall'espressione «animale
razionale». Ciò che si ottiene per astrazione si dice astratto e il
suo contrario concreto. Hegel tuttavia impiega i due termini in senso un po'
diverso: astratto è in sostanza ciò che viene concepito a
prescindere dalle relazioni che lo legano ad un certo con testo (e, in ultima
analisi, alla realtà nella sua totalità): per esempio, è
astratta una considerazione dell'uomo come entità isolata dal contesto
storico in cui vive.
SUPERAMENTO
Il verbo tedesco aufheben, che traduciamo
con «superare», ha due significati fondamentali: 1) abolire, abrogare,
annullare; 2) custodire, conservare. Questa duplicità di significati ha
un ruolo decisivo nel discorso di Hegel, per il quale tutta la realtà si
svolge per successivi superamenti. Nella triade dialettica il superamento
è rappresentato dal momento della sintesi, che è appunto l'atto in
cui la tesi e l'antitesi vengono al tempo stesso negate e conservate (o
inverate, ossia «fatte vere», rese concrete).
FILOSOFI E FILISTEI
L'espressione "filosofia della storia"
indica generalmente la riflessione sui metodi o sui contenuti della
storiografia, ma può indicare anche una storia raccontata
"filosoficamente", alla luce, cioè, di un'idea precostituita della
realtà. In questo secondo significato l'espressione si applica
principalmente a un particolare genere storiografico di cui Hegel può
dirsi l'iniziatore, anche se certamente non ne fu l'unico cultore.
Nell'Ottocento, anzi, questo modo di trattare la storia fu abbastanza popolare,
e anche oggi il suo influsso si fa sentire in certi modi di ripensare il passato
propri del senso comune e soprattutto in certe rozze ricostruzioni storiche in
cui, a scopo di persuasione e di propaganda, si avventurano di tanto in tanto
uomini d'affari e di potere, politici, economisti, profeti e predicatori di
diverse scuole.
Complessivamente la filosofia della storia di stampo
hegeliano ricorda molto da vicino le fantasiose elucubrazioni a cui si
abbandonava la filosofia schellinghiana della natura. La matrice era la stessa:
l'identificazione dell'Assoluto con la natura e con la storia e la
considerazione dei fatti (storici o naturali) come "teofanie", ossia come
manifestazioni dell'Assoluto e tappe del suo divenire. La dialettica era la
legge di questo divenire, e il compito che Hegel assegnava alla filosofia della
storia era appunto di ripensare lo sviluppo storico secondo le necessarie triadi
dialettiche. Ad esempio, se la tesi era l'assolutismo e l'antitesi la
democrazia, la sintesi di entrambi era la monarchia prussiana (di cui Hegel non
dimenticava mai di essere autorevole e appagato
funzionario).
L'identificazione dell'Assoluto con la storia era affetta,
come quasi tutte le formulazioni hegeliane, da una certa ambiguità. Da un
lato, poiché gli eventi storici sono, sì, manifestazioni dello
Spirito, ma restano pur sempre fatti determinati, limitati e transitori, essa
non faceva che ricondurre l'Assoluto al relativo, l'infinito al finito e Dio
(approssimativa e goffa immagine dell'Assoluto) al mondo. Da un altro lato,
però, quell'identificazione permetteva di "assolutizzare" la storia, nel
senso che alla storia veniva attribuito il carattere necessario e indiscutibile
dell'Assoluto: la storia era, sì, un processo, ma un processo dominato da
una logica ferrea, privo di alternative, necessariamente diretto al meglio. Ne
conseguiva che nella storia ciò che viene dopo è sempre meglio di
ciò che viene prima, perché il dopo non può non contenere
il prima, ma insieme è qualcosa di più e di diverso. Nella storia
del pensiero, ad esempio, la filosofia più recente (che, vivo Hegel, era
quella hegeliana) era anche la filosofia più vera. Come si legge
nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio:
... la
filosofia che è ultima nel tempo, è insieme il risultato di tutte
le precedenti e deve contenere i principi di tutte: essa è perciò
(beninteso, se è davvero una filosofia) la più sviluppata ricca e
concreta...
L'assolutizzazione della storia si risolveva così
in una incondizionata apologia del presente. Sul terreno della politica e della
morale una tale filosofia sembrava fatta apposta per giustificare tutti gli
ipocriti, i pusillanimi e gli opportunisti per i quali non vale mai la pena di
andare contro corrente. Se l'oggi (qualunque esso sia? è per definizione
meglio di ieri e il domani sarà per definizione meglio di oggi, la sola
cosa ragionevole da fare è lasciar andare le cose per il verso
loro.
In Germania, nel gergo studentesco del XVII e del XVIII secolo, al
tipo umano del borghese ottuso e soddisfatto era riservato un epiteto, derivato
dalla storia ebraica, che era piaciuto a Goethe, che lo ha introdotto nella
lingua letteraria, e poi a Marx, che lo ha usato senza risparmio per bollare
ogni genere di conformisti: "filisteo". Hegel rientrava in questa categoria?
Certo, quando garantiva una sorta di sanatoria generale alle ingiustizie di
questo mondo (e non solo a quelle passate, ma anche a quelle presenti o future),
riconoscendo in esse un momento dialetticamente necessario della vita dello
Spirito, Hegel assecondava l'eterna aspirazione di tutti i filistei: mettersi
l'animo in pace nella contemplazione di un mondo senza rese di conti, dove chi
ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto, e dove solo l'indignazione e la rivolta
sembrano fuori posto.
Fuori posto, in ogni caso, nella filosofia della
storia hegeliana, era senz'altro la filologia, ossia quel complesso sistema di
tecniche che gli storici europei avevano elaborato nel corso dei secoli per
arrivare a un più sicuro accertamento dei fatti. In un discorso a tesi
rigidamente prefabbricate, che ai fatti attribuiva significati incongrui,
fantastici, arbitrariamente desunti da un'immagine tutta soggettiva
dell'assoluto, come era la filosofia della storia di Hegel e dei suoi imitatori,
era possibile fare sfoggio di erudizione e di retorica, ma la critica filologica
non trovava spazio per esercitarsi. Antonio Labriola, un filosofo di fine
Ottocento che in gioventù era stato hegeliano, ma che odiava gli ipocriti
e i chiacchieroni, aveva rotto pubblicamente con l'hegelismo proprio su questo
tema: la pretesa di far quadrare mediante l'applicazione di qualche magica
formuletta "dialettica" anche quei conti che nella storia non possono e non
devono quadrare mai, gli pareva un'offesa, oltre che al buon senso, alla buona
coscienza dell'umanità.
L'ANTIHEGELISMO DI SCHOPENHAUER...
Arthur Schopenhauer (1788-1860) seguì
a Berlino le lezioni di Fichte (1811), e sin da quel momento nutrì
un'avversione molto forte, non solo filosofica, nei confronti di Fichte,
Schelling e soprattutto di Hegel (complessivamente li definì «i tre
ciarlatani»). La riflessione di Schopenhauer parte dalla distinzione
kantiana tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé). Il mondo come è
rappresentato dal nostro intelletto è semplice fenomeno, cioè
qualcosa che appare in un certo modo ma la cui essenza nascosta sta al di
là di esso; questo qualcosa è la «Volontà».
Ognuno può scoprire in se stesso questa verità attraverso
l'esperienza del proprio corpo: possiamo rappresentarci il nostro corpo come
oggetto tra gli altri oggetti, ma al tempo stesso ci sentiamo vivere. Più
precisamente sentiamo in noi stessi lo sforzo della volontà per
realizzare un atto qualsiasi, anche il più elementare, come ad esempio
uno sforzo muscolare. Secondo Schopenhauer la presenza della volontà deve
essere estesa da noi a tutto quanto esiste nell'universo, alle piante, alla
forza gravitazionale che attira i corpi, alla forza magnetica che fa volgere al
Nord l'ago della bussola, ecc.
Questa volontà però non
può essere intesa nel modo tradizionale, come ciò che dà
luogo all'agire sulla base di una riflessione razionale; la volontà di
Schopenhauer è istinto cieco, energia vitale, pura spinta alla propria
conservazione. E inoltre non si tratta della volontà dei singoli
individui o delle singole cose, ma della Volontà come principio infinito,
come essenza ultima ed unica di tutta la realtà. Da questa nozione di
Volontà deriva anche il tratto fondamentale della filosofia di
Schopenhauer, e cioè il «pessimismo metafisico». Dire che la
Volontà attraversa tutte le cose significa infatti dire che in tutte le
cose domina il bisogno e il senso della mancanza, cioè la sofferenza.
Tutte le cose sono cioè condannate ad una ricerca affannosa di qualcosa
di sempre nuovo e diverso che però, in realtà, è solo
dovuta alla tensione della Volontà per affermare se stessa.
L'unico
modo per sottrarsi a questa condizione è per Schopenhauer quello di
negare la stessa Volontà di vivere. Non però con il suicidio, che
è solo testimonianza di un desiderio frustrato di vivere in modo diverso,
ma percorrendo un itinerario (che Schopenhauer desume direttamente da dottrine
ascetiche indiane) che, attraverso la compassione e l'amore, giunge a
trasformare la Volontà in «Nolontà», cioè in
rifiuto radicale e metafisico della Volontà di vivere.
... E QUELLO DI KIERKEGAARD
Raramente vita familiare e filosofia si sono
così strettamente intrecciate come in Sören Aabye Kierkegaard. Era
nato a Copenaghen il 5 maggio del 1813, ultimo di sette figli, e a Copenaghen
morì nel 1855. Il padre anziano e segnato dalla morte di cinque figli
giovanissimi, la madre, una domestica sposata dal padre in seconde nozze, non
più giovane, un ambiente familiare «malinconico e cupo»:
Sören si diceva «figlio della vecchiaia» e gli sembrava di non
aver mai avuto giovinezza.
Colpito dalla penetrante intelligenza di
Sören, il padre ne aveva fatto il suo principale interlocutore nelle
discussioni teologiche con cui era solito intrattenersi in casa sua o di amici e
che ruotavano sempre sul peccato di Adamo e sulla redenzione di Cristo, letta
però, quest'ultima, solo nella vicenda del Venerdì santo e mai in
quella della Domenica di resurrezione. Tormentato dal rimorso per aver un giorno
«nella landa desolata dello Jutland» maledetto Dio (come egli stesso,
verso la fine della vita, rivelò al figlio, che ne rimase sconvolto), il
padre educò Sören ad una religiosità severa e
malinconica.
La cultura che Kierkegaard respirò fin da ragazzo era
impregnata di hegelismo, che filtrava già nelle conversazioni teologiche
del padre e che ritrovò ventenne nei corsi di teologia che prese a
frequentare. Per Kierkegaard la filosofia era senz'altro la filosofia di Hegel e
la ragione non poteva che essere la Ragione hegeliana. Tutto l'itinerario
filosofico-religioso di Kierkegaard si può ricondurre all'avversione per
Hegel e alla progressiva presa di coscienza di quanto lo spirito di sistema, di
cui Hegel era alfiere, fosse imprigionante e inautentico e di come, invece,
fosse necessario cercare una «propria verità», una
verità, diceva, «per la quale vivere e morire». L'uomo, secondo
Kierkegaard, ritrova la propria autenticità solo riconoscendosi come
singolo. Mala singolarità, un valore che Kierkegaard riteneva
caratteristico del Cristianesimo, oltre che dello spirito di sistema, è
negazione di quella socialità, che, come vedremo, proprio negli stessi
anni Marx veniva invece indagando e affermando.
Kierkegaard viveva con
sofferenza la propria interiorità. Nei conflitti interiori, diceva,
l'uomo è costretto a scelte radicali e a rinunce dolorose (Aut-aut,
1843). Ci sono tre stadi di esistenza: quello estetico, quello etico, quello
religioso. Don Giovanni è il simbolo della vita estetica, consumata in
passioni incostanti quanto illusorie: la sua falsa gioia nasconde il vuoto di
una esistenza inautentica. A questo ideale della esteriorità e della
falsa libertà, si oppone l'istituzione matrimoniale, che disciplina gli
impulsi di una rigida moralità: il marito è il simbolo dello
stadio etico. Ma la serenità della vita familiare è messa in
discussione da uno stadio ancora superiore di vita, lo stadio religioso il cui
simbolo è Abramo che sacrifica il figlio Isacco contro ogni convenienza
etico-sociale, in nome dell'esperienza terribile del comando di Dio.
Se lo
stadio estetico rappresenta l'immediatezza, quello etico la
mediazione/istituzione, e quello religioso il salto nella fede oltre ogni
istituzione, Kierkegaard sapeva vivere solo il primo e l'ultimo: il tema
tipicamente hegeliano della mediazione e della conciliazione gli era sempre
più estraneo. Nel maggio del 1837 Kierkegaard aveva incontrato Regina
Olsen, una quattordicenne di cui si era innamorato immediatamente. Tre anni
più tardi si era fidanzato con lei ma dopo qualche mese l'aveva
abbandonata sentendosi incapace di «essere uomo». La vicenda non si
spiega tanto con la sua presunta e misteriosa malattia, di cui parlava come di
un «pungolo nella carne» simile a quello di S. Paolo, quanto con
l'incapacità anche psicologica di mediazione, che gli faceva avvertire la
scelta etica come rinuncia alla propria singolarità, dissoluzione
dell'individuale nell'universale. Si può dire che Kierkegaard non sia mai
uscito dalla vicenda di Regina Olsen: nei Diari il rifiuto dell'istituzione
matrimoniale appare motivato contemporaneamente con le ragioni dell'esteta che
non vuole un amore definitivo e con quelle del religioso che cerca la
perfezione. La contraddizione segna la vita di Kierkegaard, che restò
sempre l'esteta descritto nel 1843 nel Diario di un seduttore pur compiendo la
scelta definitiva del «salto nella fede».
Il «salto nella
fede» escludeva però per Kierkegaard il momento
«consolatorio» dell'istituzione ecclesiastica. Come aveva rinunciato
al matrimonio, così rinunciò a farsi pastore. Maestro nell'ironia,
Kierkegaard la rivolse innanzi tutto contro la Chiesa danese e più in
generale contro la «Cristianità stabilita» che cristallizza
nell'istituzione il Cristianesimo vivente, lo uccide. Il Cristianesimo si pone
contro il mondo, è scandalo (Timore e tremore, 1843). Nella fede l'uomo
sperimenta il dramma angoscioso della separazione da Dio, avverte la vertigine
del nulla, il senso del peccato e della miserabile finitezza della condizione
umana, che vive nell'istante, ma l'istante eterno le manca (Il concetto
dell'angoscia, 1844). Non la Chiesa, compromessa con gli interessi mondani e con
la Stato, ma la fede, può indicare la via della salvezza che consiste
nell'accogliere, al di là di ogni argomentazione razionale, il messaggio
paradossale del Cristo. La venuta di Cristo è intervento di Dio nella
storia ed è, contro ogni ragione che vuole storia ed eternità come
dimensioni incompatibili, fatto assoluto, verità
universale.
Oltre alla malinconia, che si coglie a piene mani nei
Diari di Kierkegaard, il padre alimentò nel figlio una singolare
inclinazione fantastica. Quando il piccolo Sören gli chiedeva di uscire, lo
prendeva per mano e lo portava in giro per la stanza ed entrambi si mettevano a
descrivere uomini e cose, immaginando viaggi in terre lontane: un'abitudine che
Kierkegaard non perse neppure da grande, quando da solo si metteva a passeggiare
fantasticando per le stanze della sua abitazione, che voleva illuminatissima
dalla luce delle candele.
La sofferenza con la quale Kierkegaard viveva la
propria irriducibile singolarità, il senso di costituire un'eccezione, di
essere incapace di realizzare una vita normale, trapelava anche nel suo aspetto
esteriore. Gli abitanti di Copenaghen avevano imparato a riconoscere la sua
figura: portava i calzoni uno più lungo dell'altro, un cappello a tese
larghissime grandi occhiali, e soprattutto un ombrello, al quale pareva
affezionatissimo al punto che lo accarezzava di continuo e se lo stringeva alla
guancia.
Il giornale satirico «Il Corsaro» non faceva davvero
fatica a fare di Kierkegaard il bersaglio dei propri strali. Ma questo
personaggio eccentrico, che «Il Corsaro» chiamava «filosofo
capitalista» perché viveva dilapidando il sostanzioso patrimonio
ereditato dal padre, che amava le lunghe passeggiate in carrozza, i banchetti, i
cibi raffinati ed era goloso di dolci, di fumo, di caffè, era proprio lo
stesso Kierkegaard che si poneva singolo di fronte a Dio.
In quelle sue
stravaganze di certo non si divertiva: le viveva probabilmente come contrappeso
di una spiritualità che appare decisamente troppo forte per un uomo
così debole.
L'ANTIHEGELISMO DEGLI HEGELIANI: FEUERBACH E MARX
Ancora alla metà del secolo scorso
l'atteggiamento verso il Cristianesimo (e verso la religione in generale)
costituiva una discriminante filosoficamente importante, un terreno di confronto
e di scontro tra indirizzi diversi di pensiero. Un filosofo non poteva non
schierarsi in un modo o nell'altro, e dichiararsi «contro» poteva
ancora risultare pericoloso: non si finiva più al rogo, ma ci si poteva
rovinare la carriera. Hegel in proposito era stato assai prudente. In
gioventù si era entusiasmato, come gran parte dei suoi coetanei e amici
(Schelling, per esempio), per la Rivoluzione Francese ed aveva coltivato
propositi di rivolta contro la secolare oppressione politica e religiosa. Molto
presto però si era conciliato con i regimi esistenti (da quello
moderatamente innovatore di Napoleone a quello schiettamente reazionario della
Prussia dell'età della Restaurazione) e con le religioni ufficiali: ai
vecchi ideali di liberazione era subentrata una soddisfatta considerazione del
presente, a cui corrispondeva un atteggiamento di convinta solidarietà
con lo Stato, con il potere, con le autorità costituite e in generale con
quanti nei conflitti della storia erano usciti vincitori.
Il sistema
hegeliano, con la sua concezione di uno svolgimento necessario della
realtà, con l'identificazione di necessità e razionalità,
di razionalità e realtà, e con l'adozione di un punto di vista che
sacrificava sistematicamente le ragioni del singolo (e di qualsiasi
realtà particolare ed empirica) alle ragioni della Storia, dell'Assoluto,
dello Spirito, dell'Idea (o come altro si chiamava), ricordava sotto molti
aspetti la vecchia filosofia di Spinoza (per altro assai più elegante
nella sua asciutta geometria), che obiettivamente aveva poco a che fare con le
farraginose superstizioni di una qualsiasi religione positiva. Ma Hegel aveva
preferito non pronunciarsi apertamente, ed anzi non aveva mancato di fare
qualche ammiccamento in direzione del Cristianesimo, come quando aveva cercato
di istituire un'improbabile analogia tra la Santissima Trinità e la
triade dialettica.
Fu così che, alla morte di Hegel (mentre il
Governo prussiano, come abbiamo visto, si affrettava a richiamare
all'università di Berlino il vecchio Schelling con lo specifico incarico
di restaurare fra la gioventù studiosa il prestigio della religione),
allievi e seguaci si divisero sulla questione della conciliabilità del
suo pensiero con la fede cristiana. Si formarono due gruppi detti, con termini
tratti dal linguaggio politico-parlamentare, «destra» e
«sinistra» hegeliana: la prima riuniva i partigiani della
conciliabilità (o «vecchi hegeliani»), la seconda gli
oppositori (o «giovani hegeliani»). Contro Schelling e la sua
filosofia della religione uno di questi «giovani», giovane anche di
anni (era appena ventiduenne), Friedrich Engels, il futuro amico di Marx,
pubblicò anonimi nel 1842 (e cioè ad un anno dall'inizio
dell'insegnamento schellingiano) due scritti fortemente polemici in nome e a
difesa della più «laica» filosofia hegeliana della
storia.
Era il decennio che si sarebbe concluso con le rivoluzioni del
Quarantotto e il contrasto tra destra e sinistra hegeliana si spostò
inevitabilmente dal terreno religioso a quello politico. Anche qui, infatti,
l'hegelismo risultava ambiguo. A dispetto delle propensioni conservatrici dello
stesso Hegel, la proposizione «tutto ciò che è razionale
è reale, tutto ciò che è reale è razionale» si
prestava ad un'interpretazione «rivoluzionaria»: poteva cioè
significare anche che tutta l'irrazionalità e l'ingiustizia del mondo
sarebbero state prima o poi spazzate via dalla Storia e che forme razionali di
convivenza sarebbero alla fine prevalse tra gli uomini. In questo senso si
poteva addirittura affermare che al mondo non c'era nulla di più
«reale» dell'utopia.
La cosa non sarebbe piaciuta affatto ad
Hegel, ma era quello che in sostanza pensavano gli esponenti della sinistra
hegeliana, i quali, infatti, pur dividendosi, non mancarono, almeno in generale,
di partecipare agli avvenimenti del Quarantotto militando in movimenti a
carattere democratico e radicale. Gli esponenti della destra, invece, si
schierarono per lo più con la reazione. La destra hegeliana
conservò più a lungo la sua coesione, ma, pur occupando molte
cattedre nelle facoltà di filosofia, non contò quasi nulla nella
storia del pensiero. La sinistra, invece, molti dei cui esponenti dovettero
rinunciare alla carriera universitaria, si dissolse abbastanza presto anche
perché le migliori teste del gruppo (tra cui Feuerbach, Marx, Engels)
scelsero addirittura di rompere con l'hegelismo e di denunciarne le
ambiguità e le mistificazioni, ma proprio per questo è passata
meritatamente alla storia.
Ludwig Feuerbach (1804-1872) aveva studiato
teologia a Heidelberg prima di seguire le lezioni di Hegel a Berlino. La
religione restò sempre il tema preferito della sua riflessione: a
ventisei anni aveva pubblicato il suo primo scritto anticristiano, Pensieri
sulla morte e l'immortalità, che gli aveva procurato non pochi guai; la
sua opera più famosa, L'essenza del Cristianesimo, pubblicata nel 1841,
che denunciava il carattere illusorio dei valori religiosi, gli assicurò
un ruolo di leader tra i cosiddetti «giovani hegeliani». Da Hegel
Feuerbach aveva imparato come tutto ciò che esiste (o è esistito)
abbia (o abbia avuto) la sua ragion d'essere e pertanto non pensava di poter
liquidare l'esperienza religiosa, così profondamente radicata nell'uomo,
limitandosi a denunciarne le credenze come un cumulo di pregiudizi e di
fantasticherie prive di senso. In ogni caso non era questo quel che gli
interessava. L'importante per lui era capire l'origine del fenomeno religioso a
partire dai bisogni essenziali dell'uomo.
L'uomo, diceva Feuerbach,
è ragione, amore e volere, ma nella vita non riesce mai a realizzarsi
compiutamente, e la frustrazione che ne deriva si esprime nell'invenzione di un
essere immaginario, Dio appunto, in cui tutte le sue esigenze insoddisfatte
appaiono realizzate da sempre, per definizione. Quando l'uomo attribuisce a Dio
l'eternità, l'onniscienza, l'onnipotenza, ecc. non fa altro, senza
rendersene conto, che proiettare i suoi propri attributi, la sua capacità
di essere, di conoscere, di amare, di volere, a una scala infinita. È
l'uomo che ha creato Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa.
L'esperienza di libertà e di potenza che l'uomo vive inventandosi Dio
è però illusoria, perché l'immagine di Dio, che egli stesso
ha prodotto gli si rivolta contro come qualcosa di estraneo, come l'incarnazione
stessa del principio d'autorità, fonte d'ogni sua mortificazione,
soggezione, dipendenza. La divinità non è che l'immagine speculare
dell'uomo, ma questa proiezione di qualità umane è in primo luogo
alienazione (dal latino alienus = «estraneo») di umanità:
ciò che l'uomo attribuisce a Dio lo toglie a se stesso. Per questo il
problema della religione non si pone come pura e semplice confutazione di
credenze più o meno assurde, ma come riappropriazione da parte dell'uomo
della sua propria essenza alienata in Dio.
Feuerbach aveva assimilato fino
in fondo la lezione di concretezza che si poteva trarre dalla dottrina hegeliana
della storia come svolgimento dialettico, lotta, opposizione, contrasto. Era
consapevole del carattere necessario, ossia razionale, della contraddizione. La
stessa categoria di «alienazione» che usava per definire la religione
era un retaggio hegeliano: Hegel l'aveva adoperata per indicare il processo di
estraneazione dello Spirito, che si fa Natura, ma solo per superarla, ossia per
appropriarsene praticamente (con il lavoro) e teoricamente (con il pensiero) e
così realizzarsi compiutamente. Ma l'assunto idealistico faceva della
dialettica hegeliana poco più di un gioco verbale. Alla
«Ragione» hegeliana, puro nome enfaticamente assolutizzato, Feuerbach
contrapponeva la ragione concreta «imbevuta del sangue dell'uomo»,
ossia quella ragione che ha le sue radici nella corporeità e che è
fonte reale di ogni pensiero soltanto in quanto è cervello, materia,
sangue. All'uomo di Hegel, mero fantoccio nelle mani della Storia, contrapponeva
l'uomo fatto di «carne e sangue», che con i suoi miserabili bisogni
(mangiare, bere, defecare, riprodursi), con le sue frustrazioni e la sua rabbia,
esiste soltanto (ma esiste davvero!) come parte della natura e della
società.
Questo capovolgimento materialistico dell'hegelismo
piacque, tra gli altri, a Karl Marx (1818-1883) e al suo amico Friedrich Engels
(1820-1895), una singolare coppia di studiosi e uomini d'azione (sono stati
autori, tra l'altro, del Manifesto del partito comunista, redatto nel 1848 per
conto di un'associazione rivoluzionaria detta Lega dei comunisti), alla cui
opera dichiarano di ispirarsi tuttora e in tutto il mondo innumerevoli correnti
di pensiero e organizzazioni politiche (per lo più mortalmente nemiche le
une delle altre).
Da Feuerbach e dalla sinistra hegeliana, però,
Marx ed Engels si separarono presto per una diversa (e molto speciale)
concezione di materialismo, che faceva leva non tanto sulla nozione di materia,
quanto su quella di «lavoro», di attività pratica umana, che
è oggettiva e materiale proprio in quanto produttrice di cose, di beni,
di oggetti, e insomma di tutto quanto è materialmente necessario alla
sopravvivenza della società. Secondo il «materialismo storico»
(che è uno dei nomi con cui viene indicata la dottrina di Marx e di
Engels), la natura di ogni società è condizionata strettamente dai
modi in cui viene organizzata la produzione e la distribuzione tra i vari gruppi
della ricchezza sociale. Nella primavera del 1845 in certi suoi appunti noti
come Tesi su Feuerbach (e pubblicati da Engels nel 1888), Marx
scriveva:
... Il difetto fondamentale di tutto il materialismo
precedente, compreso quello di Feuerbach, è che concepisce le cose, la
realtà, il mondo sensibile solo sotto forma di oggetto o di intuizione, e
non come attività sensibile umana, come attività pratica, non in
modo soggettivo. Per questo il lato attivo è stato sviluppato
dall'idealismo in opposizione al materialismo, anche se soltanto in modo
astratto, giacché l'idealismo, naturalmente, ignora l'attività
reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili, distinti davvero
dagli oggetti del pensiero, ma neppure lui concepisce l'attività umana
come attività oggettiva. [...] Così però non capisce
l'importanza dell'azione critico-pratica, dell'azione
«rivoluzionaria»...
Anche l'uomo di Feuerbach, fatto di
«carne e sangue», finiva con l'essere un'immagine astratta,
giacché era concepito come isolato dalla sua base materiale (ossia dalle
forme della produzione). L'alienazione che Feuerbach intendeva esclusivamente
come fatto di coscienza, era invece per Marx in primo luogo lavoro alienato,
ossia estraneazione del produttore dai frutti del suo lavoro e dalla sua stessa
attività di produttore, determinata dalla specifiche forme di
sfruttamento e di oppressione messe in atto in ciascuna società. La
religione, come del resto la filosofia o l'arte e in genere tutti i cosiddetti
«prodotti dello spirito», non sono che riflessi
«ideologici», più o meno deformati e deformanti, delle
specifiche condizioni in cui in ogni società è organizzata la
produzione.
... Feuerbach non vede che il sentimento religioso
è esso stesso un prodotto sociale e che l'individuo astratto che egli
analizza appartiene in realtà a una determinata forma di
società... (VII tesi).
Nella sua analisi della religione
Feuerbach coglieva insomma un fenomeno assai indicativo della condizione umana,
ma scambiava l'effetto per la causa e attribuiva l'alienazione all'illusione
religiosa, mentre è l'alienazione reale dell'uomo (l'asservimento alle
cose che lui stesso ha prodotto, lo sfruttamento di cui è oggetto) che
genera i fantasmi della religione. Ed è evidente che anche il processo di
riappropriazione da parte dell'uomo della propria essenza sarà ben
diverso da quello previsto da Feuerbach: non un semplice fatto di coscienza
individuale, ma un'azione rivoluzionaria collettiva per la trasformazione in
senso comunista della società.
... Feuerbach prende le mosse
dal fenomeno dell'alienazione religiosa dello sdoppiamento del mondo in un mondo
immaginario, quello della religione, e in un mondo reale. Il suo obiettivo
consiste nel dissolvere il mondo della religione per ricondurlo alla sua base
terrena. Ma non vede che, fatto questo, manca ancora l'essenziale. Il fatto
stesso che la base terrena si separi da se stessa e si proietti nelle nuvole
come un mondo autonomo non si spiega che con la sua dissociazione interna e con
la contraddizione di questa base con se stessa. Perciò la prima cosa da
fare è comprendere questa base terrena nella sua propria contraddizione e
poi rivoluzionarla praticamente eliminando la contraddizione stessa.
Così, dopo aver trovato, ad esempio, che il segreto della Sacra Famiglia
sta nella famiglia terrena, è quest'ultima che deve essere criticata
teoricamente e rivoluzionata nella pratica... (IV tesi)
Come afferma
l'ultima delle Tesi su Feuerbach, l'XI,
... i filosofi finora non
hanno fatto che interpretare il mondo in diversi modi; si tratta però di
trasformarlo...
L'IDEOLOGIA E IL SUO ABBANDONO
Il termine «ideologia», oggi
così diffuso, è nato sul finire del Settecento per indicare quella
particolare disciplina filosofica che avrebbe dovuto studiare, secondo
l'indirizzo iniziato da Locke e proseguito in Francia da diversi pensatori, tra
cui Etienne Condillac (1715-1780) e Pierre-Georges Cabanis (1757-1808) la
formazione delle idee a partire dalle facoltà elementari del pensiero: la
sensibilità, la volontà, la memoria, il giudizio. I seguaci e i
collaboratori di Cabanis furono detti appunto «ideologi» ed espressero
una corrente di pensiero nettamente antimetafisica, filoscientifica e almeno
tendenzialmente materialistica. Nell'età rivoluzionaria e napoleonica gli
«ideologi» formavano un gruppo di intellettuali assai omogeneo che
estese i suoi interessi a diversi campi, direttamente o indirettamente collegati
con la politica, come l'etnologia, l'istruzione, l'economia, la statistica,
ecc.
Napoleone, che li aveva in gran sospetto e che finì per
sciogliere le istituzioni in cui lavoravano, come l'Istituto di Francia, fu il
primo a usare il termine «ideologo» in senso dispregiativo, come
sinonimo di letterato saccente e di dottrinario in malafede, un significato che
poi ritornò più volte nella pubblicistica politica, in Francia e
fuori. La traduzione tedesca, ideenkleid, significa alla lettera «vestito
di idee» (da Kleid = «abito») ed è probabile che Marx e
Engels pensassero anche al significato letterale quando, negli anni Quaranta,
utilizzarono l'epiteto contro i vecchi compagni della sinistra hegeliana, i
quali, scambiando le cose con le loro rappresentazioni, pretendevano di
trasformare il mondo con la sola «critica delle idee» (come faceva
Feuerbach con la religione) ossia coprivano o mascheravano la realtà con
le idee.
«Ideologia», dunque, è in senso generale tutto
ciò che nasconde o mistifica (intenzionalmente o meno) la realtà,
a cominciare dalla falsa coscienza di sé che hanno gli individui, le
classi sociali, i gruppi di potere (quando, per esempio, cercano di giustificare
i propri comportamenti o di occultare i propri interessi, ecc.). L'alienazione
religiosa denunciata da Feuerbach è senza dubbio un fenomeno ideologico;
ma anche l'interpretazione che ne dà Feuerbach è ideologica, in
quanto dietro all'alienazione religiosa non coglie l'alienazione reale, che ha
sede nella struttura economica della società.
Il termine
«ideologia» è usato correntemente nel senso generico di teoria
astratta, verbosa, campata per aria, ecc. Esiste comunque anche un significato
positivo del termine, quale complesso organizzato di idee o principi,
specialmente in campo politico (si tratta allora di un semplice sinonimo di
teoria: ad es.: l'ideologia del partito comunista).
NON PIŮ METAFISICA
L'ubriacatura metafisica rappresentata
dall'idealismo tedesco e il senso di sazietà generato un po' dovunque
dalle sue oscure e sterminate produzioni verbali non poteva non determinare una
reazione particolarmente infastidita negli ambienti scientifici avvezzi alle
polemiche, talvolta aspre, ma abituati anche allo stile di sobrietà, di
concretezza, di prudenza, di parsimonioso uso delle parole che era proprio della
ricerca sperimentale, nella quale, pena il discredito personale, era necessario
adeguarsi alla regola della comprensibilità degli enunciati, della
plausibilità delle ipotesi, della ripetibilità degli esperimenti e
insomma della verificabilità delle presunte scoperte.
È
più o meno in questa epoca, ossia tra gli anni Trenta e Quaranta
dell'Ottocento, che entrò in uso la parola «scienziato» per
indicare una caratteristica figura professionale, distinta da quella del
«filosofo naturale», o genericamente del «filosofo». La
distinzione, che oggi appare un'ovvietà, tanto che è difficile
immaginare un'epoca (neppure troppo lontana) in cui non esisteva affatto,
appariva limitativa per gli scienziati, e non riuscì gradita a tutti: lo
scienziato era quello che, anziché costruire grandi sistemi teorici,
proporre interpretazioni generali della realtà o formulare visioni
complessive del mondo, studiava con pazienza, con modestia, con dedizione
problemi accuratamente delimitati, circoscritti. In definitiva anche la teoria
della gravitazione universale di Newton riguardava un problema che, rispetto
all'inesauribile ricchezza della realtà, poteva apparire minuscolo:
quello di un certo tipo di azioni tra un certo tipo di corpi; e infatti, come
sappiamo, Newton apprezzava di più le sue produzioni teologiche, che
spaziavano sull'universo mondo.
Senonché (e alla lunga sarebbe stata
questa differenza a connotare positivamente lo scienziato nei confronti del
filosofo) lo scienziato sapeva sempre, o almeno aveva il dovere di sapere, quel
che si diceva: il filosofo (ossia il filosofo metafisico) no. Lo scienziato
nella sua attività era legato a delle regole e a una precisa tecnica di
ricerca; il filosofo no. Il sapere dello scienziato era positivamente un sapere,
quello del filosofo no.
Anche il termine «positivo» risale
più o meno a quest'epoca, almeno nell'accezione che qui ci interessa. Fu
usato da un aristocratico di genio, il francese Claude-Henri de Rouvroy conte di
Saint-Simon (1760-1825), che passò tutta la vita a dimostrare
l'inutilità dell'aristocrazia e ad auspicare l'avvento di un'età,
detta appunto «positiva», nella quale, eliminate definitivamente le
classi oziose e parassitarie (nobili, militari, ecc.), il potere fosse affidato
agli scienziati, ai grandi industriali e ai grandi banchieri, capaci (e qui
Saint-Simon s'ingannava) d'impiegare nel modo migliore le risorse della
società e di garantire a tutti quel benessere a cui tutti hanno diritto.
Un allievo di Saint-Simon, assai meno geniale del maestro e soggetto a ripetute
crisi di nervi, Auguste Comte (1798-1857) è considerato il fondatore del
positivismo ossia di un indirizzo filosofico che, per dirla in termini molto
generali, considera arbitrari (come già avevano fatto Hume e Kant) gli
enunciati metafisici ed accetta quali verità solo quelle accertate dalle
scienze matematiche o sperimentali. Non sempre tuttavia i filosofi positivisti,
a cominciare proprio da Comte hanno saputo resistere al fascino dei grandi
sistemi onnicomprensivi, e cioè, in sostanza, della
«metafisica» a cui intendevano opporsi.
Da Saint-Simon Comte
aveva ereditato, tra le molte cose, l'interesse per la storia, la vita politica
e la società, e l'idea di un rinnovamento delle strutture sociali che si
sarebbe reso possibile per merito dei progressi compiuti dalla scienza e
dall'industria del suo tempo.
Comte distingueva tre epoche o
«stadi» di sviluppo dell'umanità. Il primo stadio è
quello «teologico», nel quale la spiegazione dei fenomeni viene
ricercata nell'intervento di esseri soprannaturali e la società è
retta da re dispotici e da caste sacerdotali. Il secondo stadio è quello
«metafisico», nel quale la spiegazione dei fenomeni viene ricercata in
principi o entità astratte (come la «materia» o
l'«energia» del meccanicismo materialistico), e nel quale la
società è governata in base al principio della sovranità
popolare. Il terzo è lo stadio «positivo», nel quale si
rinunzia alla ricerca delle cause o essenze ultime dei fenomeni e ci si limita
alla descrizione più fedele possibile dei fenomeni stessi e delle loro
relazioni registrate nelle leggi scientifiche. Quanto alla forma di Governo
(anche qui l'idea era di Saint-Simon, ma Comte riusciva a renderla ancora
più cupa), il solo dominio ammissibile nello stadio positivo era quello
dei tecnici e degli scienziati.
Comte applicava la cosiddetta «legge
dei tre stadi» anche allo sviluppo delle singole scienze. Allo stadio
positivo le diverse discipline giungono via via, a partire da quelle il cui
oggetto è più semplice (come la matematica) sino ad arrivare a
quella il cui oggetto è più complesso: la sociologia (un'altra
invenzione di Comte), che dovrebbe studiare «scientificamente» la
società.
Gradualmente l'ammirazione per il metodo scientifico
travalicò i limiti della ragionevolezza e Comte (anche in questo,
però, preceduto da Saint-Simon) trasformò la cerchia dei suoi
seguaci in una Chiesa con un proprio culto, che avrebbe dovuto prendere il posto
delle religioni tradizionali e nel quale il Grande Essere, ossia
l'Umanità, sostituiva Dio, i grandi scienziati (o comunque i personaggi
resisi in qualche modo benemeriti dell'umanità) sostituivano i santi, i
libri di Comte sostituivano le Sacre Scritture, e così
via.